mercoledì 7 luglio 2010

Giuseppe Dossetti "Sentinella, quanto resta della notte?"


Giuseppe Dossetti

“Sentinella, quanto resta della notte?”
(Isaia 21, 11)

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Commemorando Giuseppe Lazzati nell’anniversario della morte, a Milano, il 18maggio 1994, Dossetti rivolge la propria riflessione – religiosa ma anche politica, riannodando fili mai del tutto recisi – su una contemporaneità percorsa, come scrisse all’allora Sindaco di Bologna Vitali, da propositi di “una modificazione frettolosa e inconsulta del patto fondamentale del nostro popolo, nei suoi presupposti supremi in nessun modo modificabili”. Lo scenario fortemente evocativo della “notte” del profeta Isaia diviene immagine di una diffusa indifferenza morale, in cui la stessa forma democratica è a rischio, trascinata dalla “forte emotività imperniata su una figura di grande seduttore”, può assumere incontrollabili derive di carattere irrazionale e plebiscitario.
Un richiamo alla “vigilanza” che sembra assumere a dieci anni di distanza, a fronte della profonda revisione costituzionale operata negli ultimi mesi dal Parlamento, un nuova, sorprendente e al tempo stesso allarmante, pienezza.

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1. La sentinella interpellata.

Lazzati è sempre stato – ma in particolare negli ultimi anni della sua vita un vigilante, una scolta, una sentinella: che anche nel buio della notte, quando sulla sua anima appassionata di grande amore per la comunità credente poteva calare l’angoscia, ne scrutava con speranza indefettibile la navigazione nel mare buio e livido della società italiana (1).
Perciò mi pare che per lui e per la sua devota e ansiosa scrutazione possano valere le parole di un breve, e un po’ enigmatico, oracolo del libro di Isaia: inserito tra le profezie sulle Nazioni pagane (in questo caso, come formalmente precisa la versione gre ca dei LXX, sull’Idumea oppressa dagli Assiri).

Mi gridano da Seir:
Sentinella, quanto resta della notte?
Sentinella, quanto resta della notte?
La sentinella risponde:
Viene il mattino, e poi anche la notte;
se volete domandare, domandate,
convertitevi, venite!
(Isaia 21, 11–12)


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(1) Vedi le parole di speranza pronuniate nell’ultima intervista data alla TV il 10 marzo 1986,due mesi prima della sua morte: in G. Lazzati, Pensare politicamente, II, Ed. Ave, Roma 1988, p.445 ss.
Metronomie anno XI Giugno-Dicembre 2004


2. Nessun rimpianto per il giorno precedente.

Una prima riflessione si può fare su questo testo.
Non c’è nessun cenno al giorno precedente: ai suoi pesi,alle sue prove,ai suoi tormenti e alle sue speranze (se ce ne potevano essere). Chi interpella la sentinella, e la sentinella stessa, non si ripiega a considerare – tantomeno a rimpiangere – il giorno prima.
Certo Lazzati non si face va nessuna illusione, nei suoi ultimi anni, su ciò che si stava preparando per la cristianità italiana. Chi ha potuto avvicinarlo allora, avvertiva che la sua coscienza esprimeva un giudizio duro, lucido, su ciò che stava maturando per il nostro Paese, appunto quello a cui stiamo assistendo ora dopo le ultime elezioni: non tanto lo sbandamento elettorale dei cattolici, ma le sue cause profonde, oltre gli scandali finanziari e oltre le collusioni tra mafia e potere politico, soprattutto l’incapacità di “pensare politicamente”, la mancanza di grandi punti di riferime nto e l’esaurimento intrinseco di tutta una cultura politica e di un’etica conseguente.
Perciò Lazzati, se posto di fronte agli ultimissimi accadimenti, non sarebbe stupito né si attarderebbe in vani rammarichi per l’improvvisa caduta dell’espressione politica del cattolicesimo italiano. Io sono sicuro che egli da anni la vedeva per scontata e quasi fatale: pur essendo ben convinto – e con quale vigore! – della validità in sé del patrimonio ereditato dal passato meno recente (anteriore alla prima guerra mondiale e da quello prefascista) e dal passato più recente (soprattutto dei primi lustri del secondo dopoguerra). Tale eredità poteva annoverare una elaborazione culturale, forse modesta, ma vivace; un’opera di formazione vasta e costante , di quadri e di masse; sforzi organizzativi appassionati e perseveranti; e soprattutto tanta fede e tanta speranza e tanti sacrifici di persone umili e realmente disinteressate; e infine, alcuni momenti forti di mediazione civile e politica riconosciuta da molti come valida.
A questa eredità si ricollegava Lazzati e l’ha anche gestita ed arricchita di suo.
Ma non credo che oggi, dopo tanta dissipazione che ne è stata fatta per leggerezza e per disonestà diffusa, egli si attarderebbe a insistervi o per lo meno non direbbe che il problema si riduce principalmente a rivendicare con energia il patrimonio passato e ad “avere l’orgoglio delle proprie ragioni”.
Ragioni appunto del passato: cioè di ieri, o me glio di ieri l’altro. Non abbiamo ancora abbastanza considerato – e direi proprio che non ce ne vogliamo persuadere – quant’acqua sia passata dal 1989: in cinque anni è come se ne fosse passata tanta da sommergere non un’isola, ma un intero continente (l’Europa: e l’Europa soltanto?).
Che non ne siamo ancora persuasi, non siamo solo noi cattolici (o lo siamo solo nelle affermazioni generiche, e poi non ne deduciamo quasi nulla quando si tratta di operare) ma lo sono anche i laici, e in particolare le sinistre nostrane sempre più prive di una cultura aggregante; e persino queste nuove destre, che
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hanno vinto le elezioni sulla scommessa del nuovo, ma che per ora si mostrano ancora attaccate a metodi ve cchi, a soluzioni archeologiche, e persino quando vorrebbero innovare (come fa la Lega) fanno proposte capaci di dare voce alla protesta degli interessi di oggi, e non capaci di interpretare il vero m ovimento della storia, italiana ed europea.

3. La notte va riconosciuta per notte.

Dunque, a parer mio, Lazzati oggi non sarebbe un saggio laudator temporis acti, cioè non si attarderebbe a rimpiangere il passato di ieri o di ieri l’altro, o a riaccreditarlo di fronte agli immemori, ma si immergerebbe consapevolmente nella notte: direbbe con semplicità e forza che la notte è notte, ma sempre con l’anima della sentinella che (se condo un altro testo celebre della Scrittura, il De profundis) è tutta protesa verso l’aurora:

L’anima mia è verso il Signore
più che la sentinella verso l’aurora
più che la sentinella verso l’aurora
(Salmo 129/130, trad. Ravasi)


Pur non guardando al passato, e senza stabilire alcun confronto col tempo di prima, e pur guardando in avanti verso il mattino, la sentinella è ben consapevole che la notte è notte.
Prescindiamo da un disordine più generale, che investe tutta l’Europa (e che ha riflessi speculari sui suoi prolungamenti asiatici e africani). Guardiamo per ora solo all’Italia. Siamo di fronte a evidenti sintomi di decadenza globale.
Anzitutto sul piano demografico: abbiamo il tasso di natalità più basso, sicchè se continuassimo sempre in questo modo, si profilerebbe tra un secolo e mezzo l’estinzione del nostro popolo. E com unque nella nostra società, a un crescente numero di anziani e di vecchi presto non sarà più un valido compenso il numero di giovani e di persone mature. Già oggi i minori di diciotto anni sono solo dieci milioni, su cinquanta, cioè un quinto del totale.
In secondo luogo, sganciato sempre più sistematicamente il matrimonio dal necessario e imprescindibile rapporto con la fecondità, si hanno due conseguenze:
- la fecondità cercata, quando è cercata, per conto suo, cioè non come realizzazione umana della pienezza della personalità, ma come gestione di ingegneria genetica, che finisce quasi sempre con l’essere avulsa da qualunque spiritualità;
- e dall’altra parte l’atto sessuale tende sempre di più a dissociarsi da ogni regola, nella ricerca esclusiva di un piacere che si fa sempre più autonomo e più
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sofisticato, fino alle forme più perverse, come è sempre accaduto nei periodi di decadenza dei popoli e di grave perdita delle culture.
- In terzo luogo questa ossessione del piacere sessuale, come porta a una continua ed eccessiva stimolazione dell’istinto naturale, così lo infiacchisce nelle sue stesse potenzialità naturali (e sono segnalate alte percentuali di questo decadimento). E ancora porta (con altri fattori concomitanti quale l’eccesso furibondo di immagini mediatiche) porta, dico, all’ottundersi delle facoltà superiori dell’intelligenza, cioè la creatività, la contemplazione naturale, il discernimento, per una inabilità alla durata dell’attenzione e del confronto, e quindi dell’elementare capacità critica.
- In quanto luogo la scuola, specialmente la scuola superiore – in gravissimo ritardo nel rinnovamento dei suoi ordini, delle sue strutture e dei suoi programmi – è sempre più inadeguata a compensare questo vuoto desolante: e in certi ambiti locali è fatalisticamente rassegnata a non funzionare più per nulla.
- Infine, al vuoto ideale e conseguentemente etico, si tenta dai più di compensare con la ricerca spasmodica di ricchezza: per molti al di là di ogni effettivo bisogno vitale, elevata a scopo a se stessa. Si verifica così per parecchi ciò che la prima epistola a Timoteo (6,9) chiama il laccio di una bramosia insensata e funesta.

Così, alla inappetenza diffusa dei valori – che realmente possono liberare e pienificare l’uomo – corrispondono appetiti crescenti di cose – che sempre più lo materializzano e lo cosificano e lo rendono schiavo.

Questa è la notte, la notte delle persone: la notte davvero impotente, uscita dai recessi dell’inferno impotente, nella quale la persona è custodita rinchiusa in un carcere senza serrami (Sap. 17,13.15).

4. La notte delle comunità.

In questa solitudine, che ciascuno regala a se stesso, si perde il senso del con-essere (il Mit-sein di Heidegger, cioè l’esserci al mondo insieme: pur esso, però insufficiente, come cercherà di insistere Levinas): e la comunità è fratturata sotto un martello che la sbriciola in componenti sempre più piccole (di qui la fatale progressione localistica) sino alla riduzione al singolo individuo.
E’ appunto il singolo ciò su cui costruisce tutta la sua dottrina l’ideologo della Lega: i diritti sono solo degli individui, il diritto è solo individuale(2). E perciò ri-

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(2)G. F. M iglio, Introduzione a H. D. Thoreau, Disobbedienza civile, A. Mondatori, Milano 1993,p. 24 e passim.
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spetto agli altri non vi possono essere che contratti, in funzione dei rispettivi interessi e del reciproco scambio.

Noi stiamo entrando in un’età caratterizzata dal primato del contratto
e dall’eclissi del patto di fedeltà.


Un’età, dunque, in cui

gli ordinamenti federali sono sistemi in cui si tratta e
si negozia senza soste (3
)

Al che ha già risposto Cacciari, concludendo appunto su Micro Mega il suo dialogo con M iglio: cioè che questo di Miglio è puro occasionalismo (invero alla sua volta teologico, a dispetto della sua grande pretesa di laicità) e che per tale via si ridurrebbe.

il politico a pura contrattazione economica, per dissolvere il sistema in un coacervo di accordi e di convenzioni.

E perciò Cacciari gli ripropone la domanda che aveva già formulato

Che cosa differenzia un tale sistema da quello che
regola gli accordi fra imprese industriali e commerciali?(4)


C’è da chiedersi, a questo punto, se tali degenerazioni non siano insite nella decadenza del pensiero occidentale , come sostiene Levinas. A suo parere, possono essere evitate non con un semplice richiamo all’altruismo e alla solidarietà (5); ma ribaltando tutta la impostazione occidentale, cioè ritornando alla impostazione ebraica originale, nella quale si dissolve proprio questa partenza dalla libertà del soggetto. I figli d’Israele sul Sinai, nel momento più solenne e fondante di tutta la loro storia, quando Mosè propose loro la Legge, hanno detto:

Faremo e udremo (Es 24,7) (6)

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(3)G. F. Miglio, Il negoziato permanente, in “Micro Mega”, 1/94, p. 14-15

(4) M. Cacciari, Dialogo con Miglio, in “Micro Mega” 1/94, p. 10.16-17.

(5) Quanto possono essere vuoti e sterili i richiami (anche cattolici) a una mera solidarietà, si può vedere nell’articolo di E. Berselli, Gli esorcismi della solidarietà, in “Il Mulino”, 5/93, p. 867 ss.

(6)A commento di questo testo e delle deduzioni che già ne traevano i maestri del Talmud, vedi Levinas, Quattro letture talmudiche,Il Melangolo,Genova 1982, p. 67-97, che comincia citando un
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Cioè essi scelsero un’adesione al Bene, precedente alla scelta tra bene e male. Realizzarono così un’idea di una pratica anteriore all’adesione volontaria: l’atto con il quale essi accettarono la Thorà precede la conoscenza, anzi è mezzo e via alla vera conoscenza. Questa accettazione è la nascita del senso, l’evento fondante l’instaurarsi di una responsabilità irrecusabile.

L’accoglimento della Rivelazione è una caratterizzazione
dell’uomo come risposta, come coscienza della
destinazione che porta all’Altro. Ben avanti
ogni sermone edificante, ogni moralismo, ogni paternalismo:
c’è una relazione e una responsabilità che mi costituisce
prima ancora che io possa chiedermi come devo comportarmi
e cosa devo fare (7)


Comunque si può affermare di Lazzati che, anche se non ha svolto queste premesse teoriche, e se ha semplicemente tutto ricondotto – anche l’etica – al mistero di Cristo, suprema fondazione di ogni chiamata dell’uomo, ha però sempre visto il mistero di Cristo indissolubilmente congiunto a una eticità rigorosa e sistematica. Egli ne ha analizzato e approfondito e, quel che più conta,ne ha testimoniato con i fatti, tutte le applicazioni in ogni ambito dell’esistenza personale e comunitaria. Da giovane laico si è impegnato nell’Azione Cattolica e nella cultura. Così, fatto prigioniero, dal primo giorno all’ultimo dei due anni

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detto di Rav Simai: “Quando gli israeliti si impegnarono a fare prima di udire, scesero 600.000 angeli e posero su ciascun israelita due corone: una per il fare, l’altra per l’udire”.
E Levinas continua: “Ciò è motivo di scandalo per la logica, e può essere preso per fede cieca o per l’ingenuità della fiducia infantile (… ). La tradizione ebraica si è compiaciuta di questa inversione dell’ordine normale, in cui l’intendere precede sempre il fare. La tradizione non finirà mai di sfruttare tutto il partito che si può trarre da questo errore di logica, e tutto il merito che sta nell’agire prima di avere inteso (… ), e ha cura di dimostrare che l’ordine in apparenza rovesciato è, al contrario, fondamentale (… ). L’adesione al bene per coloro che dissero: “Faremo e udremo”, non è il risultato di una scelta tra il bene e il male, essa viene prima (… ), è un patto col bene antecedentemente all’alternativa del bene e del male (… ). Segreto di angeli, non coscienza infantile (e cita il Salmo 103, 20, che egli interpreta esattamente come la Vulgata latina: Benedicite Domino, omnes angeli eius: potentes virtutes, facientes verbum illius, ad audiendam vocem sermonum eius, cioè:
Benedite il Signore, voi tutti suoi angeli: virtù potenti, che fate la sua parola, per udire la voce delle sue parole: così anche la LXX e A. Chouraqui, Le cantique des cantiques suivi des psaumes,PUF, Paris 1970, p. 229). Perciò Levinas conclude: ‘La relazione diretta col vero, che esclude l’esame preliminare del suo tenore, della sua idea – voglio dire, l’accoglimento della Rivelazione
– può essere unicamente relazione con una persona, con l’altro. La Thorà è data dalla luce di un viso. L’epifania dell’altro è ipso facto la mia responsabilità nei confronti dell’altro: la visione dell’altro è fin d’ora un’obbligazione nei suoi confronti (… ). La coscienza è l’urgenza di una
destinazione che porta all’altro, non l’eterno ritorno su di sé’.
(7) P. Vinci, Ebraismo e filosofia in E. Levinas, in Aa.Vv., Filosofia ed ebraismo, Giuntina, Firenze 1993, p. 124-127.
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di internamento nei Läger tedeschi, ha incessantemente cercato di infondere speranze e costanza e fedeltà nei compagni di prigionia. Rimpatriato, ha fatto tacere ogni preferenza personale , ha semplicem ente riconosciuto il dovere del momento, e si è impegnato in politica ad tempus e sempre con limpido e nobile rigore e tico. E dopo, con la stessa semplicità, è ritornato ai suoi studi e al suo insegnamento, e soprattutto al suo magistero continuo, col quale inculcava ai più giovani la passione etica nell’esercizio delle singole professioni. E finalmente ha ancora testimoniato la sua superiorità etica nella sua sofferta indipendenza e imparzialità di Rettore all’Università Cattolica. E poi nella sua lunga malattia fino alla morte.

5. L’illusione dei rim edi facili e delle scorciatoie per uscire dalla notte.

Ritornando ora all’oracolo di Isaia, e preso atto che esso parla di notte, e di notte fonda, dobbiamo ancora soggiungere che esso non lascia grandi speranze ai suoi interpellanti: ma con voluta ambiguità, annunzia sì il mattino, ma anche subito il ritorno della notte. L’oracolo del profeta non vuole alimentare illusioni di immediato c ambiamento, e anzi invita a insistere, a ridomandare, a chiedere ancora alla sentinella, senza però lasciare intravedere prossim i rimedi.
Potremo anche per questo aspetto trovare qualche indicazione valida per noi ora, e sempre esempi validi in Lazzati.
Certamente, anzitutto, l’indicazione e l’esempio di una perseveranza durevole che sa, anche nelle circostanze estreme, sfuggire alla tentazione di soluzioni facili e di anticipazioni tattiche.
Oserei aggiungere un consiglio che, a mio avviso, emerge dalla nuova congiuntura che si sta creando nel nostro Paese, proprio in questi giorni dopo la formazione del nuovo governo.
Conviene ripensare alle cause profonde della notte, quali già Lazzati le indicava, agli inizi degli anni ’80, come realtà intrinseche alla nostra cristianità italiana.
Anzitutto una porzione troppo scarsa di battezzati consapevoli del loro battesim o rispetto alla maggioranza inconsapevole. Ancora, l’insufficienza delle comunità che dovrebbero formarli; lo sviamento e la perdita di senso dei cattolici impegnati in politica, che non possono adempiere il loro compito proprio di riordinare le realtà temporali in modo conforme all’evangelo, per la mancanza di vero spirito di disinteresse e soprattutto di una cultura modernamente adeguata; e quindi una attribuzione di plusvalore a una presenza per se stessa, anziché a una vera ed efficace opera di mediazione; e infine l’immaturità del rapporto laici-clero, il quale non tanto deve guidare dall’esterno il laicato, ma proporsi più decisamente il compito della formazione delle coscienze, non a una
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soggezione passiva o a una semplice religiosità, ma a un cristianesimo profondo ed autentico e quindi ad un’altra eticità privata e pubblica (8).
Ebbene, se queste erano, e sono tuttora, le cause profonde della nostra notte,non si può sperare che si possa uscirne solo con rimedi politici, o peggio rinunziando a un giudizio severo nei confronti dell’attuale governo in cambio di un atteggiamento rispettoso verso la Chiesa o di una qualche concessione accattivante in questo o quel campo (per esempio la politica familiare e la politica scolastica).
Evidentemente i cattolici sono oggi posti di fronte ad una scelta che non può essere che globale e innegoziabile, perché scelta non di azione di governo ma di un aut-aut istituzionale. Non si può in nessun modo indulgere alla formula giornalistica della Seconda Repubblica, impropria, anzi erronea imitazione del modo francese di numerare la successione delle forme costituzionali avvenuta nel Paese vicino.
Non si vuol dire, con questo, che nel caso nostro non ci siano cose da cambiare, in corrispondenza delle grosse modificazioni intervenute nella nostra società negli ultimi decenni. E’ molto avvertita, per esempio, una diffusa e pervasiva alterazione patologica dei rapporti tra privati, partiti e pubblica am ministrazione; come pure la pletoricità e macchinosità di un sistema
amministrativo che non si adatta più alle dinamiche di una società moderna; e ancor più la degenerazione privilegiata e clientelare dello stato sociale (tradito); la necessità di una lotta sincera e non simulata alla criminalità organizzata; e infine l’emergenza e la necessità di adeguata valorizzazione di una nuova classe operosa di piccoli e medi imprenditori.
Si può aggiungere l’esigenza di uno sveltimento della produzione legislativa, e perciò la riforma dell’attuale bicameralismo; e soprattutto un’applicazione più effettiva e più penetrante delle autonom ie locali, da perseguirsi, però, al di fuori di ogni mito che tenda a stabilire distinzioni aprioristiche nel seno del popolo italiano e che perciò tenda a scomporre l’unità inviolabile della Repubblica.
Se tutto questo sarà fatto, nel rispetto della legalità e senza spirito di sopraffazione e di rapina, nell’osservanza formale e sostanziale delle modalità costituzionali, non ci può essere nessun pregiudizio negativo, anzi ci deve essere un auspicio favorevole.
Ma c’è una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto. Certo oltrepasserebbe questa soglia una disarticolazione federalista come è stata più volte prospettata dalla Lega. E ancora oltrepasserebbe questa soglia qualunque modificazione che si volesse apportare ai diritti inviolabili civili, politici, sociali previsti dall’attuale Costituzione. E così pure va ripetuto per una qualunque soluzione che intaccasse il principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri fonda-

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(8)G. Lazzati, Il vero scoglio della presenza cattolica, in “Vita e pensiero”, LIV, 1981, n. 10, p. 26, riprodotto in Pensare politicamente, II, cit., p. 333 ss.
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mentali, legislativo esecutivo e giudiziario, cioè per ogni avvio, che potrebbe essere irreversibile, di un potenziamento dell’esecutivo ai danni del legislativo,ancorché fosse realizzato con forme di referendum che potrebbero trasformarsi in forme di plebiscito (9).
Questi oltrepassamenti possono essere già più che impliciti nell’attuale governo: per il modo della sua formazione, per la sua com posizione, per il suo programma e per la conflittualità latente ma non del tutto occultata con il Capo dello Stato. Perciò, più che di Seconda Repubblica si potrebbe parlare del profilarsi di una specie di triumvirato: il quale, verificandosi certe condizioni oggettive e attraverso una manipolazione mediatica dell’opinione, può evolversi in un principato più o meno illuminato, con coreografia medicea (trasformazione appunto di una grande casa economico-finanziaria, in Signoria politica).
In questo senso ho parlato prima di globalità del rifiuto cristiano e ritengo che non ci sia possibilità per le coscienze cristiane di nessuna trattativa, almeno fino a quando non siano date positive, evidenti e durevoli prove in contrario.

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(9) Il referendum deve avere come oggetto un quesito semplice e comprensibile da tutti. Se invece sono presentati più quesiti insieme, e specialmente di natura tecnica-giuridica complessa, le risposte possono diventare non attendibili. Per giunta, soprattutto quando sono circondate da una forte emotività imperniata su una figura di grande seduttore, possono trasformarsi da legittimo mezzo di democrazia diretta in un consenso artefatto e irrazionale che appunto dà luogo a una forma non più referendaria ma plebiscitaria.
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6. Convertitevi!

La sostanza ultima dell’oracolo della sentinella è al di fuori di ogni ambi-
guità: Convertitevi!
La radice ebraica Šuv (... ), impiegata nel libro di Isaia, significa per sé ‘ritornare’. Ma può esprimere anche, specificamente, il rivolgersi a Dio, cioè la conversione (10).
Secondo la sentinella non si tratta tanto di cercare nella notte rimedi esteriori più o meno facili, ma anzitutto di un trasformarsi interiormente, di un dietro-front intimo, di un voltarsi positivo verso il Dio della salvezza.
Radice di questa conversione è anzitutto la contrizione, il pentimento.
Nel caso nostro dobbiamo anzitutto convincerci che tutti noi, cattolici italiani, abbiamo gravemente mancato, specialmente negli ultimi due decenni, e che ci sono grandi colpe (non solo errori o mere insufficienze), grandi e veri e propri peccati collettivi che non abbiamo sino ad oggi incominciato ad ammettere e a deplorare nella misura dovuta.
C’è un peccato, una consapevolezza collettiva: non di singoli, sia pure rappresentativi e numerosi, ma di tutta la nostra cristianità, cioè sia di coloro che erano attivi in politic a sia dei non attivi, per risultanza di partecipazione a certi vantaggi e comunque per consenso e solidarietà passiva.
Ma per quanto fosse convinto ed esplicitato e realizzato nei fatti, questo pentimento non basterebbe ancora. Inquadrandolo nel pensiero di Lazzati – soprattutto degli anni in cui cominciava più direttamente a pensare alla Città dell’uomo – si dovrebbe dire che i battezzati consapevoli devono percorrere un cammino inverso a quello degli ultimi vent’anni, cioè mirare non a una presenza dei cristiani nelle realtà temporali e allo loro consistenza numerica e al loro peso politico, ma a una ricostruzione delle coscienze e del loro peso interiore, che potrà poi, per intima coerenza e adeguato sviluppo creativo, esprimersi con un peso culturale e finalmente sociale e politico. Ma la partenza assolutamente indispensabile oggi mi sembra quella di dichiarare e perseguire lealmente – in tanto baccanale dell’esteriore – l’assoluto primato della interiorità, dell’uomo interiore.
Questo potrebbe sembrare persino ovvio e banale: ma ovvio non è, come appare chiaramente da tanti segnali nel mondo cattolico italiano, da tante affermazioni contraddittorie che si susseguono, da tante preoccupazioni ben altre che di fatto animano gruppi e personalità, vecchie e nuove, del laicato e del clero.
Mi si consenta perciò di precisare meglio che cosa è questo primato dell’interiore.
Muovo fondamentalmente da tre testi di s. Paolo.

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(10) Così qui intendono il testo di Isaia il Targum e l’antica versione siriaca, e dei moderni, oltre al CEI, la Bibbia di Gerusalemme.
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Rm. 7,15-24: Io non riesco a capire neppure ciò che
faccio: infatti non quello che voglio, io faccio, ma
quello che detesto (… ). Io so infatti che in me, cioè
nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desi-
derio del bene, ma non la capacità di attuarlo: in-
fatti io non compio il bene che voglio, ma il male che
non voglio (… ). Io trovo dunque in me questa legge:
quando voglio fare il bene, il male è accanto a me.
Infatti acconsento alla legge di Dio secondo l’uomo
interiore, ma nelle mie membra vedo un’altra legge,
che muove guerra alla legge della mia mente e mi
rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie
membra.


2 Cor. 4,16-18: Per questo non ci scoraggiamo, ma se
anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello
interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il
momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione,
ci procura una quantità smisurata ed eterna di glo-
ria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose vi-
sibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono di
un momento, quelle invisibili sono eterne
.

Ef. 3,14-16: Io piego le ginocchia davanti al Padre,
dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende
nome, perché vi conceda, secondo la ricchezza della
sua gloria, di essere potentemente rafforzati dal suo
Spirito nell’uomo interiore
.


7. L’uomo interiore.

Dal confronto di questi tre testi possiamo ricavare:
- il significato fondamentale, preso dalla filosofia greca volgarizzata, di uomo interiore in s. Paolo;
- e a un tempo il suo slittamento verso il concetto propriamente semitico (ed evangelico, e tipicamente paolino) di uomo nuovo.

Tutt’e due sono indispensabili, a parer mio: e tutt’e due devono essere tenuti presenti e valorizzati nella ricostruzione etica che è necessaria perché la nostra
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conversione sia piena e matura: e perché l’eventuale operare politico dei cristiani si possa effettivamente sottrarre agli errori e alle colpe sinora commesse.
Cominciamo dall’uomo interiore nell’accezione della filosofia greca volgarizzata, ben presente nella frase riferita dell’epistola ai Romani: è l’uom o secondo ragione, secondo il (la mente) che impegna per il meglio le sue facoltà a costruirsi pienamente secondo quelle virtù che chiamiamo cardinali (e che anche gli antichi chiamavano così): la temperanza, la fortezza, la prudenza e la giustizia.
Dobbiamo riconoscere che noi cristiani le abbiamo di fatto trascurate: tutte o quasi tutte, almeno per certe loro parti o implicanze. Abbiamo magari insistito molto sulla temperanza, e in particolare sulla castità, ma assai meno sulla fortezza: che ci possa far sostenere non dico la persecuzione violenta, ma appena il disagio sociale di una certa diversità dall’ambiente che ci circonda, oppure che ci porti ad affrontare il contrasto e la disapprovazione sociale o comunitaria, per difendere esternamente una tesi sentita in coscienza come cogente.
Ancor meno abbiamo insistito sulla giustizia in quanto obbligo di veracità verso il prossimo (e di qui la tendenza a tante dissimulazioni, considerate spesso dai non cristiani tipicamente nostre). Soprattutto non abbiamo saputo raggiungere un senso pieno della giustizia, superando una sua concezione limitata solo a certi rapporti intersoggettivi e sapendola estendere ai doveri verso le comunità più grandi in cui noi siamo inseriti. E’ a questo punto che si è potuto asserire da altri (E. Galli della Loggia), in un ripensam ento della vicenda storica del liberalism o nei confronti del cattolicesimo, nei decenni trascorsi dell’Italia unitaria, che al vuoto religioso o all’anticlericalismo del liberalism o, i cattolici non hanno offerto il compenso che potevano dare e che doveva essere loro proprio, per l’edificazione di un’etica pubblica (11).
Se questo è vero – come può apparire vero anche a prescindere dalla ricostruzione storica del Galli della Loggia, in conformità a molti e insistenti richiami Lazzatiani in materia – dobbiamo riconoscere di avere negli ultimi decenni perduto un’occasione storica unica e probabilmente irrecuperabile, e dobbiamo, pur tardivamente, cercare di riempire il vuoto e di correggere i molti errori e peccati. Dobbiamo ora porci come obiettivo urgente e categorico di formare le coscienze dei cristiani (almeno di quelli che vorrebbero essere consapevoli e coerenti) per edificare in loro un uomo interiore compiuto anche quanto all’etica pubblica, nelle dimensioni della veracità, della lealtà, della fortezza e della giustizia (quanto ancora c’è da fare soprattutto per l’eticità tributaria, oltre le facili giustificazioni forse talvolta ovvie, ma sempre non consentite al cristiano!).

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(11)E. Galli Della Loggia, Liberali che non hanno saputo dirsi cristiani, in “Il Mulino”, 5/93, p. 855 ss.
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8. L’uomo nuovo e la Città dell’uomo.

Ma s.Paolo ci insegna anche che all’uomo interiore si oppone (combatte contro) un’altra legge o forza antitetica che è nelle radici della nostra corporeità intaccata dal peccato.
E la consapevolezza di questo dovrebbe anzitutto portarci tutti all’umiltà: ad edificare i nostri sforzi individuali e collettivi sul presupposto della nostra miserabile fragilità, che fa dire all’Apostolo: sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?
Umiltà, dunque: individuale e collettiva di noi tutti cristiani. Mentre è tanto facile che, come collettività, procediamo con falsa sicurezza, con infelice parrisia, se non con arroganza, che proprio ripensando a tutti questi decenni non dovremmo avere, ma dovremmo piuttosto sentire come ragione di confusione e di vergogna.
L’uomo interiore, tuttavia, può essere salvato, anzi, come dice s. Paolo, rinnovarsi di giorno in giorno se è potentemente rafforzato dallo Spirito di Dio. Allora l’uomo interiore può essere elevato a uomo nuovo, veramente essere in Cristo nuova creazione (2 Cor. 5,17 e Gal. 6,15); rivestito di Cristo come è realmente ogni battezzato (Gal. 3,27).
Può così essere fortificato per ogni combattimento dalla panoplia di Dio (Ef.6,11); cioè rivestito della corazza della fede e dell’amore (I Tes. 5,8), e rivestito, come eletto di Dio, di viscere di misericordia (Col. 3,12).
Ma appunto tutto ciò deve essere di ora in ora implorato da Dio,credendo e confidando nella sua Paternità misericordiosa: piego le ginocchia (… ) perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria (… ).
In ultima analisi, è solo questo che può vincere la notte. Lo squarcio operato nel buio – nel momentaneo leggero peso della nostra tribolazione – dal fulgore dell’enorme, letteralmente – (........................) eterno peso di gloria.
Ma per questo ci vogliono dei battezzati formati ad essere e ad agire nel tempo continuamente guardando all’ultratemporale, cioè abituati a scrutare la storia,ma nella luce del metastorico, dell’escatologia.
Purtroppo siamo invece più spesso abituati al contrario, cioè ad immergerci continuamente e totalmente nella storia, anzi, nella cronaca: la nostra miopia ci fa pensare all’oggi o al massimo al domani (sempre egoistico), non oltre, in una reale dilatazione di spirito al di là dell’io.
C’è un aspetto e una conseguenza particolare di questa auspicabile sanzione della nostra vista – sanzione, dico, operata dal richiamo escatologico – che mi pare, concludendo, di dovere particolarmente segnalare: il ricordare sempre che la Chiesa non è ancora il Regno di Dio: ne è, se mai, il germe e l’inizio (12).
E va aggiunto che delle sue due funzioni: l’evangelizzazione (cioè l’annunzio

________________________________
(12) Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, n. 5.
13



del Cristo morto, risorto, glorificato) e l’animazione cristiana delle realtà temporali, la seconda spesso può concernere il Regno in modo molto indiretto. Il che porta a concludere che tutte queste realtà temporali che dovrebbero essere ordinate cristianamente (compresa la politica) possono essere finemente e saggiamente relativizzate, secondo le diverse opportunità concrete: e comunque sempre vanno rispettate nella loro autonomia e perseguite da laici consapevoli e competenti che, come diceva Lazzati,

vivono gomito a gomito, per così dire, degli uomini
del loro tempo e di varia estrazione culturale… .
attraverso il confronto e il dialogo,
naturalmente senza perdita della propria identità,
sempre nel rispetto della natura di tali realtà
e della loro legittima autonomia,
con sincero sforzo di comprendere l’altro (13)


E questa è la via – diurna e non notturna – verso la Città dell’uomo, nella prospettiva sempre intensamente mirata della Città celeste, della Nuova Gerusalemme.

______________________________
G. Lazzati, La Chiesa nella città dell’uomo, in Pensare politicamente, II, cit., p. 431.
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Alda Merini-Io non ho bisogno di denaro


«Io non ho bisogno di denaro.
Ho bisogno di sentimenti,
di parole, di parole scelte sapientemente,
di fiori detti pensieri,
di rose dette presenze,
di sogni che abitino gli alberi,
di canzoni che facciano danzare le statue,
di stelle che mormorino all’ orecchio degli amanti.
Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia la pesantezza delle parole,
che risveglia le emozioni e dà colori nuovi».

(Alda Merini, Terra d’Amore, 2003)

Carlo Maria Martini-Dialogo sulla vita


L’ESPRESSO N. 16 DEL 27 APRILE 2006

ESCLUSIVO/1

Dialogo sulla vita
colloquio tra Carlo Maria Martini e Ignazio Marino
Fecondazione assistita. Aborto. Staminali. Adozioni e Aids. Eutanasia. I confini della ricerca. L'incontro possibile tra scienza ed etica cristiana secondo il cardinale Carlo Maria Martini


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Carlo Maria Martini: "Caro professor Marino, ho letto con molto interesse e partecipazione il suo libro 'Credere e curare'. Mi ha colpito da una parte il suo amore per la professione medica e il suo interesse dominante per il malato e dall'altra la sua obiettività di giudizio, il suo equilibrio nel trattare problemi di frontiera, là dove le esigenze mediche si incontrano e talora sembrano scontrarsi con le esigenze etiche. Ho visto come lei non vuole rinunciare né alla sua oggettività professionale di medico né alla sua coscienza di uomo e anche di credente. Tutto ciò mi pare molto importante per quel 'dialogo sulla vita' che interessa giustamente tanto i nostri contemporanei, soprattutto per quei casi limite in cui gli ardimenti della scienza e della tecnica destano da una parte meraviglia e gratitudine e dall'altra suscitano preoccupazione per la specie umana e la sua dignità.

Tutto questo rende necessario e urgente un 'dialogo sulla vita' che non parta da preconcetti o da posizioni pregiudiziali ma sia aperto e libero e nello stesso tempo rispettoso e responsabile".

Ignazio Marino: "Vedo anch'io molte ragioni per un dialogo oggettivo, approfondito e sincero sul tema della vita umana. Viviamo infatti un momento storico particolare in cui il progresso scientifico ha rivoluzionato la posizione dell'essere umano nei confronti della vita, della malattia e della morte. Oggi, diversamente da ieri, si può nascere in molti modi diversi, si può essere curati con terapie straordinarie e mantenuti per lungo tempo, in un reparto di rianimazione, in uno stato che può essere chiamato 'vita' semplicemente dal punto di vista delle funzioni fisiologiche. La morte è sempre più considerata come un evento eccezionale da evitare e non il naturale traguardo a cui giunge inevitabilmente ogni vita umana.

Questi cambiamenti influenzano non solo il corso della nostra esistenza ma anche il modo di concepire la vita, la malattia e la morte. Per questo non è possibile ignorare gli innumerevoli quesiti etici che emergono dai continui cambiamenti legati alle nuove tecnologie e alle possibilità che la scienza mette a disposizione degli uomini.

Il dialogo su questi temi e il confronto tra uomini di diversa formazione e con differenti ruoli all'interno della società può contribuire alla circolazione di idee e posizioni volte ad individuare punti di incontro e non di divisione.

Su temi così delicati, infatti, il rischio è di cadere in facili contrapposizioni e strumentalizzazioni che non portano alcun vantaggio se non quello di creare fratture nella società. Invece, se il ragionamento viene condotto onestamente e con spirito di sincera apertura, è possibile individuare percorsi comuni o per lo meno non troppo divergenti".

L'inizio della vita
Martini: "Sono pienamente d'accordo sulle sue premesse. Là dove per il progresso della scienza e della tecnica si creano zone di frontiera o zone grigie, dove non è subito evidente quale sia il vero bene dell'uomo e della donna, sia di questo singolo sia dell'umanità intera, è buona regola astenersi anzitutto dal giudicare frettolosamente e poi discutere con serenità, così da non creare inutili divisioni.

Penso che potremmo iniziare qualche esperimento di un simile dialogo partendo dall'inizio della vita e in particolare da quella prassi, oggi sempre più comune, che si chiama 'fecondazione medicalmente assistita' e alla sorte degli embrioni che vengono utilizzati a questo scopo. Su ciò vi sono non poche divergenze di pareri e anche incertezze di vocabolario e di prassi. Vuole chiarire un poco questo punto, sulla base della sua competenza?".

Marino: "Oggi è possibile creare una vita in provetta, ricorrendo alla fecondazione artificiale. In presenza di problemi di fertilità all'interno di una coppia, la fecondazione artificiale può servire allo scopo di completare una famiglia con un figlio. Tuttavia, questa pratica si è diffusa in Italia e in molti altri paesi del mondo senza una regolamentazione prevista dalla legge. La scienza e le sue applicazioni mediche hanno camminato più rapidamente dei legislatori e, per questo motivo, ora ci troviamo ad affrontare il problema di migliaia di embrioni umani congelati e conservati nei frigoriferi delle cliniche per l'infertilità, senza che si sia deciso quale dovrà essere il loro destino.

L'attuale legge italiana, per evitare di perpetuare la produzione di embrioni di riserva che non vengono utilizzati, ha scelto una via semplicistica: crearne solo tre alla volta e impiantarli tutti nell'utero della donna. Ma questo numero, se si ragiona su base scientifica, dovrebbe essere flessibile e determinato caso per caso, secondo le condizioni mediche della coppia.

Però, la scienza viene in aiuto per suggerire delle alternative alla creazione e al congelamento degli embrioni. Esistono delle tecniche più sofisticate di quelle utilizzate oggi, che prevedono il congelamento non dell'embrione ma dell'ovocita allo stadio dei due pronuclei, cioè nel momento in cui i due corredi cromosomici, quello femminile e quello maschile, sono ancora separati e non esiste ancora un nuovo Dna.

In questa fase non è possibile sapere che strada prenderanno le cellule nel momento in cui inizieranno a riprodursi: potrebbero dare origine ad un bambino come a due gemelli monozigoti. Non c'è l'embrione, non c'è un nuovo patrimonio genetico e quindi non c'è un nuovo individuo.

Dal punto di vista biologico non c'è una nuova vita. Possiamo allora pensare che essa non ci sia nemmeno dal punto di vista spirituale e quindi che non esistano problemi nel valutare l'idea di seguire questa strada anche da parte di chi ha una fede?".

Martini: "Capisco come questi fatti angustino molte persone, soprattutto quelle più sensibili ai problemi etici. E insieme sono convinto che i processi della vita, e quindi anche quelli della trasmissione della vita, formano un continuum in cui è difficile individuare i momenti di un vero e proprio salto di qualità. Questo fa sì che quando si tratta della vita umana, occorre un grande rispetto e un grande riserbo su tutto ciò che in qualche modo la manipola o la potrebbe strumentalizzare, fin dai suoi inizi.

Ma ciò non vuol dire che non si possano individuare momenti in cui non appare ancora alcun segno di vita umana singolarmente definibile. Mi pare questo il caso che lei propone dell'ovocita allo stadio dei due protonuclei. In questo caso mi sembra che la regola generale del rispetto può coniugarsi con quel trattamento tecnico che lei suggerisce.

Mi pare anche che quanto lei propone permetterebbe il superamento di quel rifiuto di ogni forma di fecondazione artificiale che è ancora presente in non pochi ambienti e che produce un doloroso divario tra la prassi ammessa comunemente dalla gente e anche sancita dalle leggi e l'atteggiamento almeno teorico di molti credenti. Ritengo comunque opportuna una distinzione tra fecondazione omologa e fecondazione eterologa. Ma mi sembra che un rifiuto radicale di ogni forma di fecondazione artificiale fosse basato soprattutto sul problema della sorte degli embrioni. Nella proposta che lei illustra tale problema potrebbe trovare un superamento".

La fecondazione eterologa
Marino: "Lei ha accennato anche alla distinzione tra fecondazione omologa ed eterologa. Il problema è molto discusso. Infatti, se il desiderio di una coppia di creare una famiglia non può essere compiuto a causa di problemi di infertilità o per la presenza di malattie genetiche in uno dei due potenziali genitori, perché non ricorrere al seme o all'ovocita di un individuo esterno alla coppia? Non potrebbe rappresentare una soluzione per riuscire ad andare incontro a quel desiderio di famiglia? Il patrimonio genetico conta comunque di più?

Riflettendo su questo tema, la mia prima valutazione sarebbe in favore della fecondazione eterologa, se questa è l'unico mezzo per avere un figlio e se per la donna è importante avere una gravidanza. Però mi sono confrontato anche con chi sostiene che la fecondazione eterologa non di rado introduce un disequilibrio nella coppia tra il genitore biologico, che trasmette al figlio parte del proprio Dna e l'altro.

Alcuni studi pubblicati su riviste scientifiche e condotti in paesi dove la fecondazione eterologa è ammessa, hanno evidenziato che si può effettivamente creare un nucleo familiare psicologicamente sbilanciato a favore del genitore che ha trasmesso al figlio una parte del proprio patrimonio genetico, come se in qualche modo un genitore valesse più dell'altro.

Un'altra questione riguarda la trasparenza: il bambino che nasce da una fecondazione eterologa dovrebbe esserne informato? E, se la risposta è affermativa, è giusto seguire un percorso che può creare traumi psicologici, anche se nasce dal desiderio di avere un figlio? Vietare per legge il ricorso alla fecondazione eterologa significa limitare la libertà dei cittadini o va interpretata come una tutela per il futuro di chi verrà dopo di noi?".

Martini: "Le obiezioni di natura psicologica che lei ha ricordato sono appunto tra i motivi che hanno bloccato non pochi sul fatto di procedere sulla via della fecondazione eterologa, anche se ciò può comportare sofferenze per alcuni. Si aggiunge dal punto di vista etico la protezione del rapporto privilegiato che col matrimonio si viene ad istituire tra un uomo e una donna. Personalmente tuttavia rifletto anche sulle situazioni che si vengono a creare con le varie forme di adozione e di affido, dove al di là del patrimonio genetico è possibile instaurare un vero rapporto affettivo ed educativo con chi non è genitore nel senso fisico del termine. Sarei dunque prudente nell'esprimermi su quei casi che lei ricorda, dove non è possibile ricorrere al seme o all'ovocita all'interno della coppia. Tanto più là dove si tratta di decidere della sorte di embrioni altrimenti destinati a perire e la cui inserzione nel seno di una donna anche single sembrerebbe preferibile alla pura e semplice distruzione.

Mi pare che siamo in quelle zone grigie di cui parlavo sopra, in cui la probabilità maggiore sta ancora dalla parte del rifiuto della fecondazione eterologa, ma in cui non è forse opportuno ostentare una certezza che attende ancora conferme ed esperimenti".

La ricerca sulle cellule staminali embrionali
Marino: "I problemi connessi con gli embrioni hanno suscitato aspre discussioni anche sull'utilizzo a scopo di ricerca delle cellule staminali prelevate dagli embrioni stessi. Il referendum sulla procreazione medicalmente assistita del giugno 2005 chiedeva, tra le altre cose, di abrogare l'articolo della legge 40 in cui si vieta l'utilizzo di queste cellule staminali.

Dal punto di vista scientifico è ipotizzabile, anche se non ancora confermato, che le cellule staminali embrionali siano le più adatte ai fini di ricerca, per individuare terapie per curare malattie molto gravi, dal morbo di Parkinson all'Alzheimer ecc. Esistono altri tipi di cellule staminali, prelevate da tessuti adulti o dal cordone ombelicale, che già oggi vengono utilizzate con qualche successo.

Quasi tutti i ricercatori concordano sul fatto che non sia necessario creare embrioni con il solo scopo di prelevarne le cellule staminali: si possono infatti acquistare linee cellulari per condurre le ricerche, e, inoltre, studi molto recenti condotti sui topi hanno dimostrato la possibilità di ottenere cellule che abbiano le stesse caratteristiche delle staminali embrionali senza dover creare degli embrioni. Resta in sospeso la questione che riguarda gli embrioni conservati nelle cliniche per l'infertilità e che con ogni probabilità non verranno mai utilizzati da nessuna coppia. La loro fine è certa, ma è meglio lasciarli morire nel freddo oppure utilizzare le preziose cellule per scopi di ricerca? In una visione di ortodossia religiosa, si tratta di vite e come tali non possono essere soppresse per prelevare le cellule a scopo terapeutico, anche se un giorno quegli embrioni saranno comunque distrutti. Si tratterebbe della diversità tra uccidere e il lasciar morire.

Questo punto è eticamente superabile? Non è opportuno chiedere la donazione delle cellule staminali embrionali da destinare ai laboratori per sostenere la ricerca a favore di malattie oggi incurabili?".

Martini: "Innanzi tutto sono impressionato dalla prudenza con cui lei parla dell'efficacia terapeutica delle cellule staminali. Mi pare di capire che siamo ancora nel campo della ricerca e che quindi non è onesto propagandare certezze sull'efficacia curativa di queste cellule prima che ciò sia stato debitamente provato. Mi rallegro anche per il fatto che non è più ritenuto necessario creare degli embrioni con lo scopo di produrre le cellule staminali e che sono stati eleborati metodi alternativi che non pongono problemi alla coscienza. È un motivo in più per avere fiducia in quella intelligenza che il Signore ha dato all'uomo perché superi i problemi che la vita pone. È nel nome di questa stessa intelligenza che non vedo possibile pensare a una utilizzazione di cellule staminali embrionali per la ricerca. Ciò sarebbe contro tutti i principi esposti finora".

Gli embrioni congelati esistenti
Marino: "La sua risposta mi permette di allargare la riflessione alla sorte degli embrioni esistenti anche al di là di quanto sopra ipotizzato. Quando essi non vengono utilizzati, che cosa sarebbe etico fare?

Attualmente non è stata individuata una soluzione, se non quella di abbandonare le provette nei congelatori. Ma è eticamente corretto ed accettabile tollerare che migliaia di embrioni umani restino congelati nelle cliniche per l'infertilità, attendendo semplicemente che si spengano nel freddo con il passare degli anni?

Non potrebbero per esempio essere destinati a donne single che desiderano avere una gravidanza? Oppure a coppie con problemi legati a malattie genetiche che non possono ricorrere alla fecondazione artificiale normale per evitare il rischio di trasmissione del difetto genetico?".

Martini: "Mi pare che qui siamo di fronte a un conflitto di valori, più evidente nel caso della donna single che desidera avere una gravidanza, ma esistente anche, per i motivi che ho detto sopra, per coppie che per gravi ragioni mediche non possono ricorrere alla fecondazione artificiale normale. Là dove c'è un conflitto di valori, mi parrebbe eticamente più significativo propendere per quella soluzione che permette a una vita di espandersi piuttosto che lasciarla morire. Ma comprendo che non tutti saranno di questo parere. Solamente vorrei evitare che ci si scontrasse sulla base di principi astratti e generali là dove invece siamo in una di quelle zone grigie dove è doveroso non entrare con giudizi apodittici".

Adozioni per single
Marino: "Ci sono poi altri problemi, connessi allo sviluppo della vita, in particolare alla cura che la società deve avere per i bambini che non hanno una famiglia. In questi casi si apre la possibilità e l'utilità, anzi quasi la necessità di un'adozione. Oggi in Italia le adozioni non sono ammesse per i single e, più in generale, la legislazione è molto complessa e rende difficile ogni tipo di adozione. Mi chiedo se, dal punto di vista etico, sia preferibile che un bambino orfano o abbandonato dai genitori passi la vita in un istituto o sulla strada piuttosto che avere una famiglia composta da un solo genitore? Siamo sicuri che sia questa la strada giusta per garantire la migliore crescita possibile a quel bambino?

Del resto, se un genitore rimane vedovo, anche alla nascita del primo figlio, nessuno pensa che il bambino non debba continuare a vivere nel suo nucleo familiare anche se il genitore è solo uno. O ancora, la Chiesa sostiene che in presenza di un feto, in qualunque circostanza si debba invitare la donna a portare a termine la gravidanza, anche se il padre è assente o contrario, e quindi si tratterà di sostenere una madre che nei fatti sarà single. Perché allora non sostenere anche le adozioni per i single, una volta accertata la motivazione, i mezzi e le capacità del potenziale genitore di assicurare una crescita serena al bambino adottato?".

Martini: "Lei si pone domande serie e ragionevoli su un tema complesso, sul quale non ho sufficiente esperienza. Ma penso che il punto di partenza è la condizione che lei esprime in chiusura. Occorre cioè assicurare che chi si prende cura del bambino adottato abbia le giuste motivazioni e abbia anche i mezzi e le capacità per assicurarne una crescita serena. Chi è in tale condizione? Certamente anzitutto una famiglia composta da un uomo e una donna che abbiano saggezza e maturità e che possano assicurare una serie di relazioni anche intrafamiliari atte a far crescere il bambino da tutti i punti di vista. In mancanza di ciò è chiaro che anche altre persone, al limite anche i single, potrebbero dare di fatto alcune garanzie essenziali. Non mi chiuderei perciò a una sola possibilità, ma lascerei ai responsabili di vedere quale è la migliore soluzione di fatto, qui e adesso, per questo bambino o bambina. Lo scopo è di assicurare il massimo di condizioni favorevoli concretamente possibili. Perciò, quando è data la possibilità di scegliere, occorre scegliere il meglio".

Aborto
Marino: "Uno dei temi più difficili da affrontare, su cui ci si interroga in continuazione proprio per la sua delicatezza e complessità, è l'aborto. In Italia, lo Stato ha regolato la materia, sforzandosi di coniugare il principio dell'autodeterminazione delle donne con la libertà di coscienza dei medici che possono scegliere l'obiezione.

In questi anni in Italia abbiamo potuto constatare gli effetti della legislazione sull'aborto. Per quanto ciascuno di noi riconosca che l'aborto costituisce sempre una sconfitta, nessuno può negare che la legge ha permesso di ridurre il numero complessivo degli aborti e di tenere sotto controllo quelli clandestini, evitando di mettere a rischio la vita delle donne esposte a gravi disastri come le perforazioni dell'utero fatte dalle 'mammane' per indurre l'aborto. Di fronte a casi estremi come una donna che ha subito una violenza, una gravidanza in un'adolescente di undici o dodici anni, una donna senza le possibilità economiche di allevare un bambino, come si pone la Chiesa? Se si ammette il principio della scelta del male minore e, come suggerisce la Chiesa cattolica, quello di affidare la risposta all'intimo della propria coscienza (conscientia perplexa: quella condizione in cui un uomo o una donna a volte si trovano ad affrontare situazioni che rendono incerto il giudizio morale e difficile la decisione), non sarebbe eticamente corretto spiegare apertamente questo punto di vista? E sostenerlo anche pubblicamente?".

Martini: "Il tema è molto doloroso e anche molto sofferto. Certamente bisogna anzitutto voler fare tutto quanto è possibile e ragionevole per difendere e salvare ogni vita umana. Ma ciò non toglie che si possa e si debba riflettere sulle situazioni molto complesse e diversificate che possono verificarsi e ragionare cercando in ogni cosa ciò che meglio e più concretamente serve a proteggere e promuovere la vita umana. Ma è importante riconoscere che la prosecuzione della vita umana fisica non è di per sé il principio primo e assoluto. Sopra di esso sta quello della dignità umana, dignità che nella visione cristiana e di molte religioni comporta una apertura alla vita eterna che Dio promette all'uomo. Possiamo dire che sta qui la definitiva dignità della persona. Anche chi non avesse questa fede, potrebbe però comprendere l'importanza di questo fondamento per i credenti e il bisogno comunque di avere delle ragioni di fondo per sostenere sempre e dovunque la dignità della persona umana.

Le ragioni di fondo dei cristiani stanno nelle parole di Gesù, il quale affermava che 'la vita vale più del cibo e il corpo più del vestito' (cfr Matteo 6,25), ma esortava a non avere paura 'di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima' (cfr Mt 10,28). La vita fisica va dunque rispettata e difesa, ma non è il valore supremo e assoluto. Nel vangelo secondo Giovanni Gesù proclama: 'Io sono la risurrezione e la vita: chi crede in me, anche se muore, vivrà' (Gv 6,25). E san Paolo aggiunge: 'Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi' (Rom 8, 18). V'è dunque una dignità dell'esistenza che non si limita alla sola vita fisica, ma guarda alla vita eterna.

Ciò posto, mi sembra che anche su un tema doloroso come quello dell'aborto (che, come lei dice, rappresenta sempre una sconfitta) sia difficile che uno Stato moderno non intervenga almeno per impedire una situazione selvaggia e arbitraria. E mi sembra difficile che, in situazioni come le nostre, lo Stato non possa non porre una differenza tra atti punibili penalmente e atti che non è conveniente perseguire penalmente. Ciò non vuol dire affatto 'licenza di uccidere', ma solo che lo Stato non si sente di intervenire in tutti i casi possibili, ma si sforza di diminuire gli aborti, di impedirli con tutti i mezzi soprattutto dopo qualche tempo dall'inizio della gravidanza, e si impegna a diminuire al possibile le cause dell'aborto e a esigere delle precauzioni perché la donna che decidesse comunque di compiere questo atto, in particolare nei tempi non punibili penalmente, non ne risulti gravemente danneggiata nel fisico fino al pericolo di morte. Ciò avviene in particolare, come lei ricorda, nel caso degli aborti clandestini, e quindi è tutto sommato positivo che la legge abbia contribuito a ridurli e tendenzialmente a eliminarli.

Comprendo che in Italia, con l'esistenza del Servizio Sanitario Nazionale, ciò comporta una certa cooperazione delle strutture pubbliche all'aborto. Vedo tutta la difficoltà morale di questa situazione, ma non saprei al momento che cosa suggerire, perché probabilmente ogni soluzione che si volesse cercare comporterebbe degli aspetti negativi. Per questo l'aborto è sempre qualcosa di drammatico, che non può in nessun modo essere considerato come un rimedio per la sovrapopolazione, come mi pare avvenga in certi paesi del mondo.

Naturalmente non intendo comprendere in questo giudizio anche quelle situazioni limite, dolorosissime anch'esse e forse rare, ma che possono presentarsi di fatto, in cui un feto minaccia gravemente la vita della madre. In questi e simili casi mi pare che la teologia morale da sempre ha sostenuto il principio della legittima difesa e del male minore, anche se si tratta di una realtà che mostra la drammaticità e la fragilità della condizione umana. Per questo la Chiesa ha anche dichiarato eroico ed esemplarmente evangelico il gesto di quelle donne che hanno scelto di evitare qualunque danno recato alla nuova vita che portano in seno, anche a costo di rimetterci la vita propria. Non riesco invece ad applicare tale principio della legittima difesa e/o del male minore agli altri casi estremi da lei ipotizzati, né mi avvarrei del principio della conscientia perplexa, che non so bene che cosa significa. Mi pare che anche nei casi in cui una donna non può, per diversi motivi, sostenere la cura del suo bambino, non devono mancare altre istanze che si offrono per allevarlo e curarlo. Ma in ogni caso ritengo che vada rispettata ogni persona che, magari dopo molta riflessione e sofferenza, in questi casi estremi segue la sua coscienza, anche se si decide per qualcosa che io non mi sento di approvare".

Compensi per la donazione di organi?
Marino: "C'è un argomento che mi tocca da vicino, dato che da più di venticinque anni mi occupo di trapianti di organo. Grazie ai trapianti oggi migliaia di persone, altrimenti destinate a morte certa, guariscono e conducono un'esistenza piena da tutti i punti di vista. Il limite principale ad una maggiore diffusione di questa terapia è legato all'insufficiente numero di donazioni e quindi di organi da trapiantare, e di conseguenza molte persone muoiono in lista d'attesa.

Per aumentare il numero di donatori, in alcuni paesi e principalmente in Gran Bretagna, è stata avanzata l'ipotesi di stabilire un compenso per le famiglie che accettano di donare gli organi del proprio parente dopo la morte. Il dubbio è se sia eticamente corretto proporre vantaggi materiali o denaro in cambio della donazione degli organi. Si potrebbe in questo modo probabilmente aumentare il numero delle donazioni e dei trapianti e rispondere così alle esigenze dei malati che attendono in lista un organo che salverà loro la vita. Eppure questa ipotesi contiene in se il presupposto per un comportamento non equo. Non si rischia di instaurare una situazione in cui solo i meno abbienti, incentivati da un compenso, saranno disposti a donare gli organi mentre i più ricchi si limiteranno a riceverli? E la donazione, proprio in quanto tale, non dovrebbe sempre e solo basarsi sul principio dell'uguaglianza?".

Martini: "Personalmente sento molto ciò che lei afferma in conclusione, cioè l'importanza del principio dell'uguaglianza e i pericoli gravissimi di una ipotesi di retribuzione per gli organi. Mi pare che la strada è invece quella di propagandare il più possibile il principio della donazione e far crescere la coscienza collettiva su questo punto. C'è davvero da auspicare che non vi sia più chi muoia in lista d'attesa, mentre vi sono organi disponibili".

Hiv e Aids
Marino: "La questione dell'uguaglianza ci porta direttamente ad interrogarci su problemi e malattie che affliggono milioni di persone in tutto il mondo, soprattutto nei paesi più poveri e svantaggiati per i quali l'idea di uguaglianza rimane un sogno molto lontano se non una mera utopia. Come non pensare subito all'Aids? Circa 42 milioni di persone nel mondo sono portatrici del virus dell'Hiv. Nel solo 2005 secondo i dati riferiti dalle agenzie dell'Onu, 3 milioni di persone sono morte di Aids mentre si sono registrati 5 milioni di nuovi infetti. Il 60 per cento dei portatori del virus vive nei paesi più poveri dell'Africa Sub-Sahariana, con un'incidenza media nella popolazione tra il 5 e il 10 per cento e punte che arrivano sino al 25-30 per cento in alcuni paesi come il Botswana o lo Zimbabwe.

L'Hiv è la piaga di un continente che genera non solo ammalati ma orfani, povertà, impossibilità di migliorare le condizioni di vita. Nel mondo occidentale, oggi il virus viene tenuto sotto controllo grazie ai progressi nelle terapie farmacologiche che permettono ad un sieropositivo di condurre un'esistenza del tutto normale, con un'aspettativa di vita paragonabile a quella delle persone non affette dal virus. Fino a pochi anni fa, il costo annuale per i farmaci di una persona sieropositiva si aggirava intorno a dieci mila euro, una cifra proibitiva che poteva essere sostenuta soltanto dai paesi dove era presente un sistema sanitario nazionale. Oggi i prezzi, in regime di concorrenza, hanno subito un crollo, fino ad attestarsi a metà 2003 su 700 euro per i farmaci di marca (prodotti dalle multinazionali farmaceutiche) e intorno a 200 euro per i generici di fabbricazione indiana, brasiliana e tailandese. Nonostante questi importanti passi avanti, in molti paesi africani la spesa procapite in sanità non supera i 10 dollari l'anno per cui, nei fatti, l'accesso ai farmaci e alle terapie per contrastare l'Aids è negato e il virus continua a diffondersi.

Sappiamo che l'Aids si può in parte contrastare con la prevenzione e l'utilizzo dei profilattici.

Come è accettabile non promuovere l'utilizzo del profilattico per contribuire a controllare la diffusione del virus? È o non è un dovere dei governi fare scelte e prendere decisioni su questo tema? E, rispetto alla dottrina ufficiale della Chiesa cattolica, non si tratterebbe comunque di optare per un male minore e contribuire alla salvezza di tante vite umane?".

Martini: "Le cifre che lei cita destano smarrimento e desolazione. Nel nostro mondo occidentale è assai difficile rendersi conto di quanto si soffra in certe nazioni. Avendole visitate personalmente, sono stato testimone di questa sofferenza, sopportata per lo più con grande dignità e quasi in silenzio. Bisogna fare di tutto per contrastare l'Aids. Certamente l'uso del profilattico può costituire in certe situazioni un male minore. C'è poi la situazione particolare di sposi uno dei quali è affetto da Aids. Costui è obbligato a proteggere l'altro partner e questi pure deve potersi proteggere. Ma la questione è piuttosto se convenga che siano le autorità religiose a propagandare un tale mezzo di difesa, quasi ritenendo che gli altri mezzi moralmente sostenibili, compresa l'astinenza, vengano messi in secondo piano, mentre si rischia di promuovere un atteggiamento irresponsabile. Altro è dunque il principio del male minore, applicabile in tutti i casi previsti dalla dottrina etica, altro è il soggetto cui tocca esprimere tali cose pubblicamente. Credo che la prudenza e la considerazione delle diverse situazioni locali permetterà a ciascuno di contribuire efficacemente alla lotta contro l'Aids senza con questo favorire i comportamenti non responsabili".

La fine della vita
Martini: "Ma credo che è giunto il momento per il nostro dialogo di passare ad un'altra serie di problemi che riguardano la vita, e precisamente quelli che si riferiscono alla fine di essa. È necessario vivere con dignità, ma per questo morire anche con dignità. Ora, come lei sa, qui si pongono, soprattutto in Occidente, problemi molto gravi".

Marino: "Lei pensa certamente anzitutto all'eutanasia, una parola attorno a cui si crea sempre molta confusione attribuendole diversi significati. Per questo preferisco non parlare in astratto, ma esprimermi in maniera molto concreta. Si può o no ammettere che una persona induca volontariamente la morte di un'altra, sebbene gravemente ammalata e in preda a dolori fisici devastanti, per alleviare questo dolore? Di fronte ad una situazione irreversibile in cui la morte è inevitabile, ritengo sia assolutamente necessaria la somministrazione di farmaci come la morfina, che alleviano il dolore e accompagnano il malato con maggiore tranquillità nel passaggio dalla vita alla morte. È quanto viene fatto, in queste drammatiche circostanze, in tutte le rianimazioni negli Stati Uniti. Io stesso, pur soffrendone perché un medico vorrebbe sempre poter salvare la vita dei suoi pazienti, lavorando negli Stati Uniti ho deciso diverse volte di sospendere tutte le terapie. È un momento doloroso per la famiglia e, le assicuro, anche per il medico ma è una onesta accettazione che non si può fare più nulla se non evitare di prolungare sofferenze inutili e lesive della dignità del paziente. L'Italia è ancora gravemente carente in proposito, in assenza di una legge che regolamenti la materia al punto che se io eseguissi lo stesso tipo di procedimento nel nostro paese potrei essere arrestato e condannnato per omicidio, mentre si tratta solo di non accanirsi con terapie senza senso. Non sono invece d'accordo nel somministrare una sostanza velenosa per provocare l'arresto del cuore del malato e quindi indurre la morte. E, pur condannando il gesto, non sono tuttavia certo che si possa condannare la persona che lo compie. Faccio un esempio: in un recente film vincitore del premio Oscar, dal titolo 'One Million Dollar Baby', viene descritto il dramma di una donna ridotta in stato semivegetativo dopo un grave incidente sportivo, che chiede ad un uomo, il suo principale punto di riferimento nella vita, di aiutarla a porre fine alla sua sofferenza fisica e psicologica. L'uomo inizialmente rifiuta poi accetta perché ritiene che quello sia un atto d'amore estremo verso l'essere umano a cui si tiene di più. Pur non riuscendo a giustificare l'idea della soppressione di una vita, mi chiedo, in situazioni simili, come si può condannare il gesto di una persona che agisce su richiesta di un ammalato e per puro sentimento d'amore? E d'altra parte è lecito ammettere il principio di non condannare una persona che uccide?".

Martini: "Sono d'accordo con lei che non si può mai approvare il gesto di chi induce la morte di altri, in particolare se è un medico, che ha come scopo la vita del malato e non la morte. Neppure io tuttavia vorrei condannare le persone che compiono un simile gesto su richiesta di una persona ridotta agli estremi e per puro sentimento di altruismo, come pure quelli che in condizioni fisiche e psichiche disastrose lo chiedono per sé. D'altra parte ritengo che è importante distinguere bene gli atti che arrecano vita da quelli che arrecano morte. Questi ultimi non possono mai esser approvati. Ritengo che su questo punto debba sempre prevalere quel sentimento profondo di fiducia fondamentale nella vita che, malgrado tutto, vede un senso in ogni momento dell'esistere umano, un senso che nessuna circostanza per quanto avversa può distruggere. So tuttavia che si può giungere a tentazioni di disperazione sul senso della vita e a ipotizzare il suicidio per sé o per altri, e perciò prego anzitutto per me e poi per gli altri perché il Signore protegga ciascuno di noi da queste terribili prove. In ogni caso è importantissimo lo star vicino ai malati gravi, soprattutto nello stato terminale e far sentire loro che si vuole loro bene e che la loro esistenza ha comunque un grande valore ed è aperta a una grande speranza. In questo anche un medico ha una sua importante missione".

Accanimento terapeutico
e interruzione delle terapie

Marino: "Connesso con questo tema è quello dell'accanimento terapeutico. La tecnologia attuale è in grado di mantenere in vita malati che fino a pochi anni fa non venivano nemmeno condotti in un reparto di rianimazione. Il progresso scientifico permette di prolungare artificialmente anche la vita di una persona che ha perso ogni speranza di ritrovare una condizione di salute accettabile. Per questo appare urgente affrontare il problema dell'interruzione delle terapie.

Ogni forma di accanimento terapeutico andrebbe evitata perché contrasta con il rispetto della dignità umana.

Per la Chiesa, la sospensione delle terapie viene considerata come accettazione di un fatto naturale, di non accanirsi più. Il Catechismo della Chiesa cattolica dice: 'L'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all'accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente'.

Esistono strumenti legali, come il testamento biologico, che permettono al singolo individuo di indicare con precisione, e in un momento di tranquillità emotiva, fino a che punto si desidera accettare il ricorso a terapie straordinarie. Il testamento biologico rappresenta uno strumento molto valido per aiutare il medico e la famiglia a prendere la decisione finale. Dovrebbe basarsi su regole flessibili e indicare anche una persona di fiducia in grado di interpretare le volontà di quell'individuo tenendo conto degli ulteriori progressi della scienza.

Molti paesi lo hanno adottato con buoni risultati. In Italia un disegno di legge è stato presentato al Senato da molto tempo ma attende ancora di essere discusso. Non sarebbe il momento di avviare una riflessione seria e condivisa per introdurre al più presto anche nel nostro paese una legislazione in merito alla fine della vita, cioè a uno dei momenti più importanti della nostra esistenza?".

Martini: "Il testo da lei citato del Catechismo della Chiesa cattolica mi pare esauriente al proposito. Se si volesse legiferare su questo punto è però importante che non si introducano aperture alla cosiddetta eutanasia di cui abbiamo parlato sopra. Per questo sono incerto anche sullo strumento del testamento biologico. Non ho studiato l'argomento e non saprei dare un parere decisivo. Ritengo con lei che una riflessione seria e condivisa sulla fine della vita potrebbe essere utile, purché sia appunto seria e condivisa e non si presti a speculazioni di parte e soprattutto non introduca in qualche modo aperture a quella decisione sulla propria morte che ripugna al senso profondo del bene della vita, come sopra si è detto".

La scienza e il senso del limite
Marino: "In conclusione, vorrei proporre una riflessione più generale. La conoscenza, il progresso scientifico, l'avanzamento tecnologico creano straordinarie opportunità di crescita per il nostro pianeta ma allo stesso tempo mettono nelle mani di ricercatori e scienziati un grande potere, legato al fatto di essere in grado di intervenire sui meccanismi che regolano l'inizio della vita e la sua fine.

La scienza corre più veloce del resto della società e anche dei parlamenti, incaricati di fissare delle regole ma il più delle volte incapaci di intervenire tempestivamente.

A mio modo di vedere andrebbe richiesta con fermezza un'assunzione di responsabilità da parte di ogni scienziato coinvolto in un campo della ricerca che interviene sull'essenza della vita, sulla sua creazione e sulla sua fine. Fermo restando che la valutazione razionale è indispensabile, l'arbitrio del ricercatore dovrebbe essere disciplinato anche dal senso di responsabilità bilanciato dalla valutazione dei rischi e delle conseguenze.

Non si tratta di appellarsi alla fede o alla religione ma di puntare su una presa di coscienza da parte di ogni scienziato. Questo non significa voler arrestare il progresso scientifico ma preservare e rispettare il nostro bene più prezioso, ovvero la vita.

Ma la storia purtroppo ci insegna che l'appello alla responsabilità individuale a volte non basta. Per questo gli scienziati devono fornire ogni informazione utile e alla fine dovrebbero essere i parlamenti, o meglio le istituzioni sovranazionali, a fissare le regole sulla base del comune sentire dei cittadini".

Martini: "Tutti siamo pieni di meraviglia e di stupore, e quindi anche grati a Dio, per il formidabile progresso scientifico e tecnologico di questi anni che permette e permetterà sempre più e meglio di provvedere alla salute della gente. Insieme siamo consci, come lei dice, del grande potere che è nelle mani di ricercatori e di scienziati e della ferma assunzione di responsabilità che deve permettere ad essi di ricercare sempre valutando i rischi e le conseguenze delle loro azioni. Esse devono sempre contribuire al bene della vita e mai al contrario. Per questo occorre anche talora sapersi fermare, non varcare il limite. Io sono inclinato a nutrire fiducia nel senso di responsabilità di questi uomini e vorrei che avessero quella libertà di ricerca e di proposta che permette l'avanzamento della scienza e della tecnica, rispettando insieme i parametri invalicabili della dignità di ogni esistenza umana. So anche che non si può fermare il progresso scientifico, ma lo si può aiutare ad essere sempre più responsabile. Come lei dice, non si tratta di appellarsi alla fede o alla religione, ma di puntare sul senso etico che ciascuno ha dentro di sé. Certamente anche leggi buone e tempestive possono aiutare, ma come lei afferma, la scienza corre oggi più veloce dei parlamenti. Si esige quindi un soprassalto di coscienza e un di più di buona volontà per far sì che l'uomo non divori l'uomo, ma lo serva e lo promuova. Anche le istituzioni sovranazionali debbono prender coscienza del pericolo che tutti corriamo e del bisogno di interventi tempestivi e responsabili. In tutta questa materia occorre che ciascuno faccia la sua parte: gli scienziati, i tecnici, le università e i centri di ricerca, i politici, i governi e i parlamenti, l'opinione pubblica e anche le chiese. Per quanto riguarda la Chiesa cattolica, vorrei sottolineare soprattutto il suo compito formativo. Essa è chiamata a formare le coscienze, a insegnare il discernimento del meglio in ogni occasione, a dare le motivazioni profonde per le azioni buone. A mio avviso non serviranno tanto i divieti e i no, soprattutto se prematuri, anche se bisognerà qualche volta saperli dire. Ma servirà soprattutto una formazione della mente e del cuore a rispettare, amare e servire la dignità della persona in ogni sua manifestazione, con la certezza che ogni essere umano è destinato a partecipare alla pienezza della vita divina e che questo può richiedere anche sacrifici e rinunce. Non si tratta di oscillare tra rigorismo e lassismo, ma di dare le motivazioni spirituali che inducono ad amare il prossimo come se stessi, anzi come Dio ci ha amato e anche a rispettare e ad amare il nostro corpo. Come afferma san Paolo, il corpo è per il Signore e il Signore è per il corpo. Il nostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in noi e che abbiamo da Dio: perciò non apparteniamo a noi stessi e siamo chiamati a glorificare Dio nel nostro corpo, cioè nella totalità della nostra esistenza su questa terra (cfr 1 Cor 6,13.19-20)".

a cura di Daniela Minerva

Enzo Bianchi-Ospitate in voi l'ospitalità



Il Sole 24 Ore, del 23 maggio 2010
Oggi, praticare l'ospitalità nei modi in uso presso le popolazioni seminomadi che del Medioriente, di cui anche l'episodio di Abramo a Mamre è testimonianza, appare sempre più difficile: un'antica consuetudine, presente in tutte le culture come dovere sacro, si sta smarrendo soprattutto in quella che chiamiamo la civiltà "occidentale". Le cause di tale fenomeno sono certamente molteplici. In primo luogo, il declino della prassi dell'ospitalità è provocato dal carattere consumistico della società occidentale. Il mercato oggi si è impadronito anche dell'ospitalità strappandola alla gratuità e facendone un affare commerciale, un business.
Bisogna inoltre mettere in conto la mutata tipologia della presenza degli stranieri nelle nostre società. Una presenza non più sporadica o stagionale ma consistente, stabile e - a differenza dei flussi migratori conosciuti a partire dal XIX secolo -"plurale": gli stranieri giungono tra di noi da paesi, culture e mondi religiosi distanti da noi e tra di loro. Di conseguenza, molti degli "autoctoni" si sentono minacciati nella loro identità culturale e religiosa, oltre che in termini di occupazione e di sicurezza, così che gli stranieri finiscono per incutere paura. La paura di chi è diverso e il ripudio di forme culturali, morali, religiose e sociali lontane da noi finiscono per spingerci sempre più velocemente verso la sfera del "privato", l'isolamento, la chiusura all'altro, magari mascherati da custodia della propria identità.
Va anche riconosciuto che, poco per volta, questo atteggiamento di diffidenza e di difesa tende a inquinare tutti i nostri rapporti, al punto che finiamo per non praticare più l'ospitalità neppure nei confronti di chi possiamo definire, letteralmente il "prossimo", cioè chi è "più vicino", chi vive accanto a noi condividendo la stesse lingua e la stessa cultura. Così le nostre case assomigliano sempre più a fortezze protette da serrature, porte, cancelli, sistemi di allarme, telecamere, recinti e muri siamo diventati progressivamente succubi di una mentalità che si restringe e si chiude a ciò che appare come "altro", sconosciuto, nuovo, diverso. Finiamo allora per pensare l'ospitalità soltanto come indirizzata a quanti noi invitiamo: ma l'invitato non è un ospite, né le attenzioni usate verso di lui sono ospitalità...
L'altro, il vero altro, infatti, non è colui che scegliamo di invitare in casa nostra -forse anche con il retropensiero di essere poi a nostra volta invitati (cf. Lc 14,12-14) - bensì colui che emerge, non scelto, davanti a noi: è colui che giunge a noi portato semplicemente dall'accadere degli eventi e dalla trama intessuta dal nostro vivere, perché «l'ospitalità è crocevia di cammini». L'altro è colui che sta davanti a noi come una presenza che chiede di essere accolta nella sua irriducibile diversità; poco importa se appartiene a un'altra etnia, a un'altra fede, a un'altra cultura: è un essere umano, e questo deve bastare affinché noi lo accogliamo. In altre parole, perché dare ospitalità? Perché si è uomini, per diventare uomini, per umanizzare la propria umanità. O si entra nella consapevolezza che ciascuno di noi, in quanto venuto al mondo, è lui stesso ospite dell'umano, o l'ospitalità rischierà di restare tra i doveri da adempiere: sarà magari tra i gesti significativi a livello etico, ma si situerà su un piano fondamentalmente estrinseco e non diverrà un rispondere alla vocazione profonda dell'uomo, un realizzare la propria umanità accogliendo l'umanità dell'altro.
Il considerarsi ospiti dell'umano che è in noi, ospiti e non padroni, può invece aiutarci ad avere cura dell'umano che è in noi e negli altri, a uscire dalla indifferenza e dal rifiuto della compassione che, sola può condurci a comprometterci con l'altro nel suo bisogno. Il povero, il senza tetto, il girovago, lo straniero, il barbone, colui la cui umanità è umiliata dal peso delle privazioni, dei rifiuti e dell'abbandono del disinteresse e dell'estraneità, incomincia a essere accolto quando io incomincio a sentire come mia la sua umiliazione e la sua vergogna, quando comprendo che la mortificazione della sua umanità è la mia stessa mortificazione. Allora senza inutili sensi di colpa e senza ipocriti buoni sentimenti, può iniziare la relazione di ospitalità che mi porta a fare tutte ciò che è nelle mie possibilità per l'altro. Ma dev'essere chiaro che l'ospitalità umanizza innanzitutto colui che la esercita: «Non ha ancora incominciato a essere un vero uomo chi non ha vissuto la pietà per l'umanità ferita e svilita nell'altro» (Pierangelo Sequeri).
Scriveva Jean Daniélou: «La civiltà ha fatto un passo decisivo, forse il passo decisivo, il giorno in cui lo straniero, da nemico (hostis) è divenuto ospite (hospes)... Il giorno in cui nello straniero si riconoscerà un ospite, allora qualcosa sarà mutato nel mondo». In effetti, il modo di concepire e vivere l'ospitalità è rivelativo del grado di civiltà di un popolo. Ospitare è uscire dalla logica dell'inimicizia, è fare del potenziale nemico un ospite. Dovremmo imparare a pensare il grado di civiltà in riferimento al livello dell'umanità e del rispetto dell'umanità dell'uomo, non solo in termini di tecnologia e di sviluppo. Nel praticare l'ospitalità si fa dunque più che mai opera di umanizzazione come aveva compreso con molta intelligenza già Benedetto, il quale nella sua Regola chiede che il monaco mostri all'ospite «ogni umanità», mostri cioè ciò che è proprio degli uomini.
ENZO BIANCHI - Priore di Bose

Don Ciotti-Il lavoro ritorni al centro della vita


INTERVISTA A DON LUIGI CIOTTI

Si è appena concluso il primo Festival del Lavoro. Cosa può fare il paese per il lavoro, soprattutto dei giovani?

Costruire delle politiche del lavoro per il Paese. C’è una marea di giovani che hanno voglia di lavorare, di trovare una loro libertà, di non dover dipendere: c’è ormai un’adolescenza prolungata, c’è una dimensione giovanile che è costretta a stare in casa perché non ha le condizioni per avere dei progetti, delle prospettive. E quindi si chiedono politiche per il lavoro. È bello parlare di un festival, ma non è un festival che vuole essere solo festival, ma vuole essere un momento di riflessione, di consapevolezza: di politiche giuste, nella legalità, nella dimensione etica, ma soprattutto che tengono conto della dimensione di giustizia. Che vuole dire affermazione di diritti, a fianco dei doveri, e l’uguaglianza. Allora questa è una repubblica democratica fondata sul lavoro: chiediamo lavoro.

Lei vive quotidianamente con i giovani: i giovani possono ancora sognare il lavoro ideale?

C’è un grande impoverimento delle speranze oggi. C’è dubbio, incertezza, precarietà, fatica, che a volte crea ansia, crea anche smarrimento: noi crediamo che ci sia bisogno di ridare dei punti di chiarezza, di sicurezza, creando una nuova fonte generatrice tra un mondo di giovani e un mondo di adulti. Abbiamo bisogno non di una società che si preoccupi dei giovani ma che se ne occupi di più: il problema della famiglia, il problema della scuola, del lavoro, sono delle priorità con una loro sana partecipazione, un loro sano protagonismo. Devo dire che i ragazzi sono fantastici, hanno fantasia, creatività, oggi hanno la nuova tecnologia e se trovi dei punti di riferimento positivi, che riescono a intercettare il loro vissuto, le loro emozioni, e creano le loro condizioni con il loro protagonismo, io li vedo esplodere. Li vedo esplodere in senso positivo: ci sono, e quindi bisogna crederci in questo.

Lei spesso è nelle regioni del Sud. C’è una fuga di cervelli, si parla di una politica per far rientrare questi cervelli. Al Sud c’è bisogno di giovani: cosa bisogna fare?

Il Sud è una terra meravigliosa, con gente meravigliosa, con grande fantasia, creatività, e con un grido. Un grido da una parte “basta” all’illegalità, alla criminalità, dove in certi territori c’è una presenza criminale mafiosa, che poi è trasversale a tutto il nostro Paese, lì magari ha scorie, radici, percorsi; dall’altra parte bisogna creare le condizioni di politiche sociali, di un fermento sociale, dovrei dire di giustizia sociale, e quindi il problema della casa, del lavoro. Giovani che sono costretti ad andare lontano impoverendo la loro terra, non potendo avere le condizioni per potersi spendere lì: conosco tanti che sono tornati che hanno un mare di problemi, di fatiche, di sacrifici, che si stanno spendendo per l’amore della loro terra. Io vedo con le cooperative che abbiamo cercato di aprire sui beni confiscati ai grandi boss con bando pubblico, trovi delle
meraviglie di ragazzi: allora tu immagina se si riesce a moltiplicare questa e altre forme di intervento. Su questo il Paese deve rifletterci perché conviene: la lotta alle grandi criminalità, alle mafie, comincia proprio a creare le condizioni di vivere quello che in fondo Carlo Alberto Della Chiesa, il prefetto di Palermo, un giorno ha detto: lo Stato dia come diritto ciò che le mafie danno come favore. Diritto e dovere: creiamo condizioni di lavoro, di dignità, di libertà per le persone. Questa è la grande scommessa.