lunedì 23 agosto 2010

Da Ground Zero ai rom, in gioco i diritti dell'uomo

22 agosto 2010
Da Ground Zero ai rom, in gioco i diritti dell'uomo
di Giuliano Amato


La polemica che ha investito Barack Obama, per la sua iniziale presa di posizione a favore della costruzione di una moschea a Ground Zero, e poi l'espulsione dei rom dalla Francia sono solo la spia di un fondamentalissimo problema, che quasi quotidianamente mette in gioco la fedeltà a se stesse delle nostre democrazie. Obama ha fatto un'affermazione che in sé e per sé dovremmo ritenere ovvia: «Noi siamo l'America, questi sono i nostri valori e ad essi ci dobbiamo attenere».

Eppure, nel contesto di sentimenti popolari che dopo l'11 settembre identificano con il terrorismo il mondo musulmano, l'affermazione del presidente americano è stata contrastata nel suo stesso partito, timoroso di perdere ulteriori consensi.

I rom sono una minoranza con storia, tradizioni, aspettative. Le condizioni in cui vivono da decenni in società che non hanno più bisogno dei loro cavalli e delle loro qualità artigiane, hanno accentuato la loro segregazione, il degrado dei loro insediamenti, la microcriminalità come fonte di sussistenza. Le maggioranze vogliono solo liberarsene e i governi, nonostante le convenzioni e i trattati che per ragioni di civiltà prevedono tutt'altro, prima o poi le assecondano. E proprio qui è il punto. La democrazia è fondata su principi di civiltà che sono la sua ragion d'essere e la distinguono da altri regimi. Ciò nondimeno in essa le ragioni del consenso e le ragioni della (sua) civiltà finiscono molto spesso per divergere.

Volete qualche altro esempio tratto dalla nostra esperienza in Italia? Intanto gli stessi rom, e lo sappiamo bene. Ricordo solo che la maggioranza di centro-sinistra fu molto tiepida con me quando volevo un disegno di legge per riconoscere i loro diritti e togliere tanti di loro dall'assurdo limbo di una vera e propria inesistenza giuridica (che per ciò stesso non permette di trovare lavoro). Poi ci sono le carceri, che nella patria di Beccaria dovrebbero privare il detenuto della sola libertà personale, mai degli altri diritti che discendono dalla sua dignità di essere umano. Ma in molte delle nostre carceri, non fosse altro che per il loro sovraffollamento, quei diritti sono violati ogni ora del giorno e della notte. Eppure il tema non è mai fra quelli per cui si muovono le maggioranze, che guardano alla questione con tutt'altre finalità.

I somali che tentano di raggiungere le nostre coste sono persone che avrebbero in Italia diritto d'asilo. Noi li fermiamo prima che arrivino, chiediamo alla Libia di occuparsene e non facciamo l'unica cosa che la nostra civiltà ci chiederebbe di fare: andare noi a verificare in Libia l'autenticità della loro posizione (o farla verificare lì dall'organizzazione delle migrazioni) e portarli in Italia. Le ragioni del consenso non consentono a nessuno dei grandi partiti di sostenere una tale soluzione.

Così come le ragioni del consenso impediscono di prendere atto che gli stessi immigrati illegali, i paria della nostra comunità nazionale, sono titolari di diritti e con loro lo sono i loro figli, giacché l'istruzione, la salute, l'assistenza legale, la sicurezza sul lavoro sono diritti non del cittadino, ma della "persona". Gli immigrati illegali sono almeno persone? Nessuno osa negarlo, e tuttavia quanti di noi sono pronti a trarne le conseguenze?

C'è chi è pronto a farlo, ma sono sempre i meno, mai i più. Non a caso i temi che ho ricordato sono oggetto di campagne di minoranza, come quelle del movimento radicale, da anni campanello d'allarme delle nostre coscienze. E non a caso nell'assetto istituzionale delle democrazie si distingue fra istituzioni maggioritarie elettive, nelle quali prevalgono le ragioni del consenso, e istituzioni non maggioritarie di garanzia, in primo luogo le corti, nelle quali dovrebbero prevalere le ragioni della civiltà codificate proprio in quei diritti a cui le maggioranze sono meno sensibili.

È già molto per le ragioni della civiltà se vi sono minoranze libere di sostenerle e giudici abilitati a farle valere, quando esse si incarnano in obblighi e diritti. Ma una democrazia finisce prima o poi per ammalarsi se le maggioranze non si aprono mai alle minoranze e disattendono le decisioni dei giudici, che ne contestano le scelte in nome di un principio superiore.

Insomma, i famosi checks and balances funzionano a dovere, e con loro funziona a dovere il sistema democratico, se ci sono interazione e quindi reciproca permeabilità fra le istanze di cui essi sono portatori e quelle di cui si fanno carico le maggioranze. Se c'è invece impermeabilità e quindi divaricazione perdurante, alla lunga tutto il sistema si deteriora, perché le minoranze o si estremizzano o si estinguono e i giudici, che non possono distanziarsi senza limiti dalla sensibilità delle maggioranze, finiscono per acquietarsi.

I leader illuminati delle minoranze lo sanno e sanno perciò trovare mediazioni e compromessi con le maggioranze. E anche la giustizia possiede le formule interpretative che permettono di salvaguardare i diritti individuali meno graditi alle stesse maggioranze, lasciando un qualche spazio ai limiti voluti da queste. Si pensi alla Corte europea dei diritti dell'uomo, che distingue fra diritti non suscettibili di alcun bilanciamento, come il diritto a non subire torture, e diritti, come quello a non vedersi sequestrato un film, davanti ai quali possono in certi casi prevalere i sentimenti religiosi dominanti nella comunità interessata.

Il problema è se flessibili sono anche le maggioranze e pronte esse stesse a interagire. Gli esempi per la verità non mancano e uno recente è la Spagna, dove la Corte costituzionale aveva censurato nel 2007 una legge che comprimeva quasi tutti i diritti degli immigrati illegali (salvo la scuola per i loro bambini) e una nuova disciplina è stata approntata nel 2010 che accoglie in buona parte le sue preoccupazioni.

Si tratta dunque di un circolo virtuoso possibile, che tale rimane però sino a quando nelle maggioranze prevalgono le qualità che trovereste naturali in una democrazia, la misura e il realismo. Ma attenti. Già 45 anni fa Richard Hofstadter ci spiegò la tendenza della politica, negli stessi paesi democratici, a diventare - lui diceva - paranoica e quindi a puntare per affermarsi sulla denuncia dei complotti, sulla demonizzazione dei nemici e sulla diffusione dell'ostilità e della paura ("The Paranoid Style in American Politics", New York 1965). Quando ciò accade, l'assimilazione fra talune minoranze e il nemico è la cosa più facile. E su chi conduce battaglie di civiltà cade prima il silenzio che isola, poi l'ostilità che comprime.

Un metro dunque per misurare la salute delle nostre democrazie lo abbiamo. Se ancora c'è chi si batte per ragioni di civiltà che contrastano con le ragioni del consenso, vuol dire che c'è vita. Ma se intorno c'è e rimane un pervicace silenzio, forse stiamo già entrando in paranoia.



22 agosto 2010

giovedì 19 agosto 2010

«Abbiamo lasciato a spagnoli e israeliani la ricerca avanzata»


Leonardo Vingiani

«Abbiamo lasciato a spagnoli e israeliani la ricerca avanzata»

Il Sole 24 Ore 18 agosto 2010

«L'Italia era al secondo posto in Europa per le sperimentazioni genetiche in campo. Poi, a causa di 10 anni di blocco, siamo precipitati, lasciando tutti gli spazi a spagnoli e israeliani, e ora i nostri ricercatori emigrano. Per esempio, sono italiani i ricercatori impegnati in Cina con le sperimentazioni sui pioppi». Per Leonardo Vingiani, direttore di Assobiotec (l'associazione per lo sviluppo delle biotecnologie, aderente a Federchimica), è da considerare una follia ideologica quella che ha impedito all'Italia di sviluppare gli Ogm.
Chi è contrario agli Ogm sostiene che, introducendoli in Italia, la nostra agricoltura non sarebbe più competitiva poiché perderebbe gli aspetti legati alla tipicità.
Sono assurdità. Le specialità, le tipicità incidono per meno dell'1% sull'economia agricola italiana. Non è con la cipolla di Tropea che si garantisce la sopravvivenza dell'agricoltura ma bisogna badare alle necessità di chi fa commodities.
Ma se produciamo mais identico a quello di Paesi a basso costo di manodopera, possiamo essere competitivi?
Non dobbiamo pensare di coltivare mais per esportarlo in mezzo mondo. Non avrebbe alcun senso. Ma dobbiamo e possiamo essere competitivi per la produzione di mais, e di soia, destinato ad essere trasformato in mangime per i nostri allevamenti. Perché già adesso il 90% dei mangimi per i nostri maiali o le nostre vacche da latte deriva da prodotti Ogm. E allora non ha alcun senso acquistare all'estero mais geneticamente modificato e poi impedire ai nostri coltivatori di essere competitivi. Non a caso la produzione di mais in Italia è calata sensibilmente negli ultimi anni.
Ma non sono proprio gli agricoltori ad essere contrari agli Ogm?
No, non è vero. Sono solo alcuni di loro ad opporsi con motivi pretestuosi. Abbiamo promosso un sondaggio tra gli agricoltori della Lombardia ed il 60% si è dichiarato favorevole agli Ogm, qualora ci fossero leggi chiare. Ed in ogni caso chi si oppone dimostra la totale mancanza di rispetto nei confronti delle libertà individuali.
Non ci sono rischi, con l'intervento genetico, di rinunciare alla tipicità, con il pomodoro di Pachino prodotto magari in Cina?
Ma il pomodoro di Pachino non esisteva in natura. È nato 35 anni or sono in un laboratorio israeliano e poi è stato portato in Italia perché si è riscontrato che ci fossero le migliori condizioni per coltivarlo. E non si tratta di un caso isolato. Tutte le principali varietà vegetali sono state selezionate nei laboratori dai genetisti agrari che hanno individuato le caratteristiche migliori. L'unica differenza è che ora le procedure sono meno lente. Mentre l'Italia avrebbe tutte le qualità e le competenze per proseguire nella tradizione di sperimentazione, in grado di assicurare un miglioramento genetico non casuale ma voluto e mirato.
Il mais transgenico crea timori anche per l'alimentazione umana, a partire dagli amanti della polenta.
Anche in questo caso occorre fare chiarezza. Innanzitutto perché il 95% della produzione di mais è destinato agli allevamenti e non all'alimentazione umana. Quanto ai rischi, va ricordato che le tossine sono decisamente minori nel mais Ogm. In ogni caso per ora il problema non riguarda la produzione per l'uomo.
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lunedì 16 agosto 2010

Accordi per aiutare non per respingere-Avvenire 14.08.2010



Nozza: il flusso migratorio che preme sulla Ue è sempre più forte Ma costruire muri non serve. Accoglienza nel segno della legalità



DA MILANO PAOLO LAMBRUSCHI

Non servono muri e accordi internazionali contro le persone in mare o in terra. Bisogna procedere invece sulla via dell’accoglienza e dell’integrazione, aprendo una seria riflessione sull’illegalità, spesso funzionale allo sfruttamento del lavoro nero. Monsignor Vittorio Nozza, direttore della Caritas Italiana, interviene sui recenti sbarchi.

Come valuta la ripresa degli arrivi dei migranti?

Abbiamo avvertito e segnalato un ritorno in questi ultimi tempi di flussi migratori su coste e rotte che parevano dimenticate. È accaduto in Puglia, ma anche in Sardegna e nello stesso Canale di Sicilia. Numeri ancora contenuti, certo, ma vediamo modalità di trasporto nuove con piccole barche o velieri. I fatti di questi ultimi mesi ci portano a dire che, se si bloccano alcune rotte, comunque gruppi di immigrati e il racket cominciano a studiare nuovi percorsi. Il flusso migratorio che preme sull’Unione europea è troppo forte. Non si arresta in questo modo.

L’Italia sta cercando di stringere accordi con Grecia e Turchia da dove provengono le imbarcazioni che da alcuni mesi approdano sulla costa pugliese. Basterà?

Gli accordi internazionali vanno colti come strumenti opportuni proprio perché consentono di governare e accompagnare il muoversi di masse di persone il più delle volte in situazioni di disperazione o povertà. Ma tutto dipende da cosa sta dentro un trattato tra uno Stato e l’altro: se è un accordo contro le persone, se esso si riduce a un puro costruire muri e respingere, i fatti ci dicono che non risolve completamente il problema poiché c’è il rischio che comunque i migranti tentino percorsi diversi. Se invece in un accordo tra uno Stato e un altro, o meglio tra diversi Stati di partenza e transito e l’Ue, c’è anche una preoccupazione e un’assunzione di responsabilità verso gli immigrati e i profughi allora l’accordo è opportuno e necessario. Ben vengano dunque accordi capaci non di respingere le persone in difficoltà, ma di accogliere, di assumere, di accompagnare quanti in questo migrare vanno alla ricerca di una speranza futura con onestà e buona volontà.

Avete ribadito che gli ingressi non avvengono solo via mare, anzi...

Non è una novità, ma è opportuno tenere presente che in Europa i migranti arrivati con gli sbarchi sono sempre stati molto meno di quelli che varcano le frontiere via terra. Accadeva prima e accade anche ora. Solo in Italia sbarcavano in 30 mila via mare contro 100 mila via terra. Ma l’illegalità cresce non solo per i nuovi arrivi, ma internamente grazie alla crisi. È un problema che avvertiamo ai nostri centri di ascolto parrocchiali e che ci preoccupa.

Vale a dire?

Purtroppo durante questa recessione molti immigrati regolari, con un lavoro e già inseriti da anni, stanno perdendo il proprio posto, passando da una situazione di regolarità a una di irregolarità perché questo vuole la legge italiana, che lega il permesso di soggiorno solo all’occupazione. Questo avviene indipendentemente dalla lunghezza della permanenza e dal livello di integrazione. Ciò finisce con l’incrementare di nuovo il numero degli irregolari, mettendo intere famiglie in condizioni precarie. A noi pare giusto chiedere agli immigrati, accanto alla doverosa accoglienza che va prestata, il rispetto della legalità. Ma poi non sfugge a nessuno che la massa di irregolari viene sfruttata con il lavoro nero in diversi comparti della nostra economia. Siamo in estate, pensiamo a cosa sta accadendo nelle nostre campagne. O alle badanti e alle colf. L’integrazione si costruisce anche attraverso la legalità, quindi con un lavoro alla luce del sole, capace di dare dignità, autonomia e sussistenza.

A proposito di integrazione, al momento del varo da parte del governo del piano nazionale che prevede il permesso a punti lei sospese il giudizio. Dopo tre mesi, cosa ne pensa?

Non sono intervenuti elementi né ho dati per una valutazione di merito. Dico solo che è giusto chiedere agli immigrati la conoscenza della nostra lingua, della cultura e il rispetto delle leggi. Ma occorre fornir loro anche gli strumenti di apprendimento. Il permesso a punti non deve trasformarsi a mio avviso in un percorso a punti verso l’integrazione e credo che nessuno voglia provvedimenti punitivi. In generale, per evitare controproducenti strumentalizzazioni politiche, credo che la nostra società debba chiedersi serenamente che uso intende fare dell’immigrazione. All’Italia e all’Europa serve un progetto serio.

(ha collaborato Nicola Ferrante)

Il direttore della Caritas: giusto accompagnare i migranti che vanno alla ricerca di una speranza futura con onestà e buona volontà Attenti al racket. Se si bloccano alcune rotte, i criminali studiano altri percorsi

Una variante alla “Valsugana” per risolvere il problema del traffico


Uno dei grandi problemi del Veneto, che ha sviluppato negli ultimi 40 anni un sistema economico fra i più vivaci del mondo, è la carenza di infrastrutture stradali. Continuiamo a far correre sulle strade fatte dai “Romani” duemila anni fa (Medoacus e Postumia) auto, Tir, furgoni, i mezzi pubblici sono assolutamente carenti per il trasporto merci, continuiamo a fare capannoni, case e condomini. San Giorgio non fa eccezioni e rinviare la soluzione del traffico vorrebbe dire tagliarsi fuori dal futuro sviluppo dell’alta Padovana.
Con 35.000 veicoli al giorno, che aumentano alla media del 5% l’anno, con un semaforo che blocca il traffico con code interminabili, il centro di San Giorgio in Bosco, è sempre meno fruibile dai residenti. Lo smog, soprattutto il PM10, ha raggiunto picchi allarmanti. Né valgono a risolvere la situazione i due ampi marciapiedi ai lati della Valsugana che offrono maggior sicurezza ai pedoni e la viabilità parallela ad est, via del Donatore, che sarà pronta nel 2008 e quella ad ovest, con lo spostamento della Bretella, che non è al momento finanziata. E neppure la rotatoria, che sostituirà a breve il semaforo, risolverà il traffico delle ore di punta, anzi aumenterà il pericolo dell’attraversamento della strada da parte di pedoni e biciclette. E’ l’anima del paese che rischia di scomparire sommersa dall’inquinamento acustico e ambientale.
Dopo il completamento della tangenziale di Limena, San Giorgio rappresenta il problema viario per eccellenza nella direttrice Padova-Bassano. Ben si comprende, dunque il dibattito in corso da anni, sulla realizzazione di snodi viari alternativi.

Già il 27 ottobre 1999 si è cominciato a parlare di viabilità nell’Alta Padovana e della Pedemontana in un incontro nel Comune di Cittadella con il Cons.Reg. Vittoriano Mazzon e con l’Ass. Fontana e nel convegno organizzato dalla Provincia di Padova il mese successivo emergeva la fragilità di un’economia cresciuta oltre ogni previsione, ma “stoppata” da un sistema viario inadeguato.
Dal confronto emerso il 28 gennaio 2000, alla Torre di Malta, fra i politici (De Poli e Bazzoni), i rappresentanti delle forze economiche presenti (Upa e Unindustria) e i tecnici presenti, emergevano i problemi che ostacolavano la mobilità nell’Alta Padovana, in particolare per San Giorgio in Bosco. E lo stesso De Poli interrogava la Regione il 6 aprile 2000 “…perché intervenga presso l’Anas affinché inserisca nei suoi interventi prioritari sia la progettazione che il necessario stanziamento per la realizzazione del passante di San Giorgio in Bosco…”
Nell’incontro-dibattito dell’11 aprile 2000 a San Giorgio in Bosco, coordinato dal sottoscritto, tutti i relatori (Antonio Meneghetti, Pres.Upa, Roberto Ongaro, già Ass.Prov.Padova, Antonio Perozzo, Pres.Cna, Antonio Bertuzzo, Pres. Ascom, Franco Frigo, Antonio De Poli, Giovanni Gallo, Vittoriano Mazzon, questi ultimi candidati al Consiglio Regionale) si esprimevano per un impegno a risolvere con una variante alla Statale 47 a San Giorgio in Bosco.
Il 9 gennaio 2001, la Giunta comunale di San Giorgio in Bosco prendeva atto del Piano Provinciale della viabilità, enucleando come priorità la realizzazione di una tangenziale a San Giorgio in Bosco.
L’11 novembre 2002 la Provincia di Padova affidava quindi l’incarico per la redazione di uno studio di fattibilità per una variante alla ex S.S. n. 47 “Valsugana”, nel tratto da S.Giorgio in Bosco a Facca di Cittadella, su richiesta dell’allora Cons.Prov. Mario Gerolimetto che era riuscito a farne approvare il relativo finanziamento nel bilancio preventivo.
Il 29 novembre 2004 il Consiglio Comunale, all’unanimità, approvava un ordine del giorno in merito alla variante San Giorgio in Bosco-Cittadella, richiedendo alla Provincia l’impegno di dare immediato avvio all’iter procedurale per la redazione del progetto preliminare, definitivo ed esecutivo, spostando l’innesto in prossimità della zona industriale di Paviola. Il Consigliere Provinciale Paolo Simioni, intervenendo in questo Consiglio, concordava sul testo deliberato.
Il 28 settembre 2005, in una strapiena sala teatro di San Giorgio in Bosco, i comuni di Fontaniva, San Giorgio in Bosco e Cittadella, alla presenza dell’Ass.Prov. Riolfatto, presentavano lo studio di fattibilità della variante che interessava i tre Comuni con l’illustrazione dell’Ing. Furlan di Idroesse.
Il 17 novembre 2005, presso la sala consigliare di San Giorgio in Bosco, l’Ass. Riolfatto della Provincia illustrava a tutti i sindaci dell’Alta Padovana la bozza di revisione del Piano Provinciale della viabilità, raccogliendone i suggerimenti e le osservazioni.
Mentre le periodiche riunioni del Coordinamento delle categorie economiche del Cittadellese, all’Hotel Filanda, con i politici hanno sempre sostenuto la necessità di decongestionare il traffico della Valsugana, raccordandolo con la Pedemontana e realizzando le tangenziali sud di Cittadella e di San Giorgio in Bosco-Cittadella, la Federazione Provinciale Coltivatori Diretti di Padova presentava il 13 febbraio 2006 un elenco di firme contrarie alla tangenziale di San Giorgio in Bosco, ritenendo che l’opera avrebbe avuto un impatto devastante sul territorio.
Il 14 febbraio 2006 la Giunta prendeva atto del Piano Provinciale della viabilità della Provincia, ribadendo la assoluta priorità della realizzazione della variante San Giorgio in Bosco-Cittadella.
Nel Consiglio Comunale del 28 aprile 2006, in una sala consigliare dove non tutto il foltissimo pubblico aveva potuto accedere, il Sindaco comunicava, l’accordo politico tra i Comuni di Cittadella, Fontaniva, Galliera Veneta, Tombolo, Campo San Martino e San Giorgio in Bosco in ordine alle soluzioni dei tracciati intercomunali PATI “Alta Padovana”:
“L’ordine del giorno di questa sera vuole solo rendere pubblica la lettera, firmata dai sei sindaci del PATI “Alta Padovana” (noi siamo con quello di Piazzola, ma siamo uniti al Cittadellese per quanto riguarda la viabilità) con la quale viene richiesto alla Provincia di riprendere la progettazione della viabilità che la stessa aveva sospeso con lettera del 07.02.06 e che leggo testualmente: (omissis).
Si tratta di un accordo di portata “storica” perché mai, a memoria d’uomo, sei sindaci si erano trovati d’accordo su qualcosa, fosse anche solo per ordinare un aperitivo al bar.
Tutti hanno capito che non è più possibile progettare qualcosa da soli. Per esempio, per Cittadella abbiamo firmato anche noi per la palestra di Santa Maria, per Fontaniva abbiamo abbiamo firmato per il Museo, per la zona artigianale di San Giorgio in Bosco la Provincia ha chiamato tutti i Comuni contermini, per il PATI abbiamo tutti dovuti associarci, per la ferrovia lo stesso e così via.
Non si tratta più della “variante San Giorgio in Bosco-Cittadella”, ma di un “piano di assetto territoriale intercomunale”, cioè di un sistema di viabilità che pone riparo agli errori dello sviluppo disordinato del Cittadellese. Se riusciremo a risolvere il problema della viabilità della zona industriale di San Giorgio in Brenta, quello dell’enorme zona industriale fra Cittadella e Tombolo, delle code di San Giorgio in Bosco, sarà merito di questo accordo. E dobbiamo capire che non si risolve il problema di un comune senza interagire su quelli confinanti, anche con sacrifici che siano accettabili per il bene comune. In risposta a questo documento la Provincia con lettera del 21.04.06 ha ripreso l’attività progettuale. L’iter per la soluzione progettuale dei tracciati per la soluzione della viabilità dell’alta padovana è quindi avviato perché l’opera è strategica e di fondamentale importanza e tagliarsi fuori da essa vorrebbe dire tagliarsi fuori dal futuro sviluppo del Cittadellese. Altre soluzioni alla variante San Giorgio in Bosco-Cittadella significherebbe solo trasferire ad altri Comuni (che non li vogliono) i nostri problemi.
Per far fronte al grande pubblico, il Consiglio Comunale del 22 maggio 2006 veniva convocato nella sala teatro. Dopo l’illustrazione delle caratteristiche dello studio sul tracciato sulla nuova variante da parte del Geom. Furlan, intervenivano vari Consiglieri Comunali, rappresentanti di associazioni produttive (Cav. Meneghetti-Coord.Cat. del Cittadellese, Toniolo Luciano-Coldiretti, Conte-Cia, Campagnolo Natalino-Cna), l’Ass. di Fontaniva Spessato, il Cons.Prov. Simioni e il Cons.Reg. Franco Frigo. La mozione approvata dalla maggioranza (con l’astensione delle opposizioni) nel riaffermare l’urgenza di una soluzione alla viabilità per San Giorgio in Bosco, sollecitava la Provincia a valutare, oltre allo studio di fattibilità illustrato, anche altre soluzioni.
Nel Consiglio Comunale del 7 maggio 2007 infine, con i voti favorevoli della maggioranza e contrari delle opposizioni, veniva approvato lo studio di fattibilità della Variante di San Giorgio in Bosco e Facca di Cittadella al percorso della S.P. 47 Valsugana. Nel dibattito veniva illustrata la risposta negativa a una viabilità alternativa sulla “Strada Contarina” che passa per Piazzola sul Brenta, fornita da Net Engineering, incaricata dalla Provincia: “…da ciò ne risulta che l’alternativa più conveniente per risolvere le criticità presenti sulla S.P. 47 è la creazione di una variante alla S.P. 47 ad essa parallela, piuttosto che puntare sul potenziamento di itinerari alternativi che, pur con caratteristiche migliorate, non assorbirebbero il traffico in eccesso sulla S.P. 47, che ne determina la congestione”. Nella delibera veniva votato un emendamento che chiedeva alla Provincia di tener conto negli indennizzi ai proprietari dei disagi (lotti interclusi, deprezzamento del valore delle aziende agricole) e opere di mitigazione dell’impatto della nuova infrastruttura (pista ciclabile, miglioramento della viabilità esistente, percorsi pedonali). Durante il Consiglio interveniva anche il Cons. Prov. Simioni che, nell’approvare in Consiglio Provinciale il Piano Provinciale della Mobilità (comprendente anche la variante di San Giorgio in Bosco), aveva ottenuto un emendamento per la rotatoria al semaforo.
Il Consiglio Regionale alla fine dello scorso anno ha approvato all’unanimità, compreso il voto favorevole dei Consiglieri Regionali di zona Conte e Frigo, il nuovo piano triennale della viabilità inserendo la variante alla SR 47/ San Giorgio in Bosco-Cittadella.
Le perplessità di una parte della popolazione riguardo al rispetto dell’ambiente sono legittime, ma sta a tutti noi trovare le soluzioni più opportune. Il problema è di metodo. La via che bisogna seguire è quella della concertazione, in modo che l’opera stessa sia vissuta come un’opportunità economica e non come un’imposizione dall’alto.

San Giorgio in Bosco, 22 agosto 2007

Il sindaco
Leopoldo Marcolongo

lunedì 9 agosto 2010

Tasse sui redditi alti per non ridurre la spesa-Innocenzo Cipolletta

Innocenzo Cipolletta Il Sole 24 Ore 06 agosto 2010

Come si può ridurre il disavanzo pubblico del paese senza troppo deprimere la capacità di crescita? La risposta che viene correntemente data è: basta ridurre gli sprechi e combattere l'evasione fiscale. In questo modo si riesce a ridurre il disavanzo pubblico senza incidere sulla crescita del paese. Bella soluzione: ma funziona? L'esperienza dice di no.
Quando si parla di sprechi nella spesa pubblica si citano sempre gli stessi esempi: la pletora dei CdA delle società degli enti pubblici, la presenza di sedi all'estero, le auto blu, l'assenteismo, i falsi invalidi e poco altro.
Sono esempi che attirano l'attenzione ma nel complesso incidono poco sulla spesa pubblica. Certo, vanno eliminati, ma non è questa la via per fare risparmi consistenti. La strada è quella di tagliare alcuni servizi pubblici e anche qui si sostiene che ci siano molti sprechi. Ma, quelli che alcuni considerano come sprechi, spesso sono invece servizi utili per altri. Lo spreco è sempre quello che non serve a noi. Treni e autobus che viaggiano semivuoti; posti letto negli ospedali che non sono pienamente utilizzati; musei poco visitati; enti di ricerca e culturali; scuole diffuse sul territorio; eccetera.
Si possono riorganizzare questi servizi, ma alcuni sprechi non possono essere eliminati, pena la perdita del servizio stesso. Ad esempio, non si può pretendere che tutti partano alla stessa ora con lo stesso mezzo di trasporto per razionalizzare il servizio, ovvero che tutti vadano allo stesso ospedale, come in una catena di montaggio. La qualità di un servizio sta anche nella sua disponibilità quando serve. Più che tagli di sprechi, occorre avere il coraggio di dire che si stanno riducendo i servizi ai cittadini, ciò che non può non incidere sulla loro vita e sulla loro capacità di spesa. Con il risultato che questi tagli hanno effetti depressivi sull'economia, ciò che invece si sarebbe voluto evitare.
Lo stesso vale per la lotta all'evasione. Spesso la lotta all'evasione è affidata all'eliminazione di alcune deduzioni fiscali, considerate fonte di elusione, o all'inasprimento di alcuni parametri ritenuti non adeguati. Saranno anche giuste simili misure, ma alla fine sono nient'altro che un inasprimento fiscale su chi già paga adeguatamente le imposte. Mentre i troppi condoni e scudi fiscali finora fatti nel nostro paese non hanno portato alcuna riduzione dell'evasione fiscale e hanno invece premiato abbondantemente chi evadeva le tasse. E con ciò l'evasione fiscale è continuata.
In effetti, l'errore principale sta proprio nel considerare la lotta all'evasione e agli sprechi come misure per fare cassa nei momenti di bisogno. Questa impostazione trasforma un'azione ordinaria che dovrebbe essere esercitata costantemente in una manovra straordinaria dettata dalla congiuntura economica. È come dire che, se non ci fosse la necessità di ridurre il disavanzo pubblico, allora non varrebbe la pena di ridurre gli sprechi e di combattere l'evasione fiscale. E ciò è sbagliato e immorale. La lotta all'evasione fiscale e agli sprechi deve essere un obbligo permanente del governo e dell'amministrazione pubblica, che non deve variare a seconda delle esigenze della finanza pubblica. Sarebbe un vero scandalo se fosse vero il contrario.
Ma allora, come contenere il disavanzo pubblico in una fase recessiva come l'attuale? La via è quella di usare più la leva fiscale che quella della riduzione della spesa pubblica. Un aumento delle tasse sui redditi medio-alti delle persone ha meno effetti depressivi di una riduzione della spesa pubblica che colpisce servizi a danno dei meno abbienti. Inoltre, poiché veniamo da un periodo di forte accentuazione delle disparità di reddito, una simile misura avrebbe anche effetti perequativi e di giustizia sociale. Quindi sarebbe anche meglio accettata dalla popolazione.
Purtroppo nel nostro paese ancora si insegue il mito della riduzione, a tutti i costi, della spesa pubblica, come se fosse la soluzione di tutti i mali, senza rendersi conto che la ricchezza di un paese dipende anche dalla qualità e dalla quantità di servizi che vengono offerti alla popolazione. E si inseguono gli elettori attraverso riduzioni di imposte, come l'eliminazione dell'Ici sulla prima casa che ha abbassato la pressione fiscale sui più abbienti e ha distrutto ogni possibilità di varare una qualche forma di federalismo fiscale.
Con una politica di riduzione del disavanzo pubblico tutto centrato sulla spesa pubblica, si aggraveranno le spinte recessive nel paese. Almeno di questo devono essere consapevoli quanti continuano a pensare che basta ridurre gli sprechi per sanare le finanze pubbliche in una fase di crescita lenta dell'economia.