sabato 27 novembre 2010

Avvenire 25 novembre 2010-Immigrati respinti dall'Italia


Cominciamo con la drammatica vicenda dei profughi eritrei – respinti prima che potessero approdare in Italia e ora in situazione precaria in Libia – una serie di pagine di inchiesta su 'che fine hanno fatto' persone la cui sorte è stata al centro dell’attenzione dei media o vicende che hanno sollevato grandi dibattiti nel Paese, salvo poi sparire all’improvviso dagli articoli dei giornali. Pagine per evitare di dimenticare situazioni drammatiche o per capire cosa ha funzionato e cosa no. Pronti a far tesoro anche dei suggerimenti dei lettori.
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I respingimenti, il carcere e le torture

L’ ultimo capitolo di una già lunga odissea comincia il 6 luglio 2010 quando, dopo una settimana di prigionia nel durissimo carcere di Al Braq, in mezzo al deserto, 200cittadini eritrei vennero scarcerati, fu loro concesso un permesso temporaneo e il divieto di lasciare la città di Sebah, 75 chilometri a nord.

Divieto che nessuno ha mai osservato.

Erano arrivati lì dopo un viaggio di 12 ore chiusi in un camion, senza acqua né cibo e con temperature fino a 50 gradi.

Provenivano dal carcere di Misurata, dove già da tempo erano rinchiusi insieme a 50 donne eritree, liberate anche loro il 6 luglio.

Si erano ribellati quando nel centro di detenzione era entrato un diplomatico eritreo per identificarli.

Così era scattata la deportazione, per punizione: da Al Braq non si torna. Le donne no, erano rimaste a Misurata a subire altre violenze e umiliazioni.

La loro colpa? Essere tutti fuggiti da una dittatura che li recluta a vita nell’esercito. E di voler chiedere asilo in Italia passando per il Mediterraneo.

Gli ultimi in ordine di tempo, una ventina, erano stato intercettati domenica 6 giugno scorso in acque internazionali, a circa 20 miglia da Lampedusa, da una nave militare libica, arrivata probabilmente su segnalazione delle autorità italiane o maltesi.

Ad Al Braq nonostante le torture e i continui insulti, i 200 reclusi si sono rifiutati di firmare i fogli di rimpatrio.

Resistere è stata la mossa decisiva per la loro salvezza. L’agenzia Habeshia, che ha mantenuto i contatti con loro diffondendo sul suo blog le notizie in tempo reale, è riuscita a sensibilizzare numerose organizzazioni umanitarie provocando alla fine l’intervento di Roma. (P.Lam.)

le tappe

Da questa estate in cerca di un approdo

50 donne sono state sottoposte a stupri e atti degradanti

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profughi

Una parte degli immigrati respinti dall’Italia ha tentato di raggiungere Israele ma è bloccato nel Sinai. Il resto non ha documenti e finirà in carcere


DI PAOLO LAMBRUSCHI

Prigionieri nel Sinai, in catene co¬me schiavi, ostaggio dei traffi¬canti egiziani. Così è finita una parte consistente, ben 80 dei 255 eritrei che nel luglio scorso avevano rischiato di morire nella famigerata prigione libica di Al Braq, in pieno Sahara, dopo essere stati respinti in mare dall’Italia e poi liberati grazie alla pressione delle organizzazioni umanitarie sul nostro governo. Un mese fa alcuni di loro sono fuggiti dalle sabbie libiche alla volta di Israele, su una delle nuove rotte della disperazione verso l’Europa, che ora incrociano il Medio Oriente e la Turchia, a rischiare di morire in un altro deserto. L’allarme è stato lanciato ieri, esattamente come l’estate scorsa, dal blog dell’agenzia di cooperazione allo sviluppo Habeshia. Secondo la quale ci sono 600 persone in condizioni disperate da oltre un mese nel deserto al confine tra Egitto e Israele, prigioniere del racket. Oltre agli 80 eritrei fuggiti da Tripoli, somali e sudanesi. Tra questi, vi sono anche donne, segnala il blog curato da Roma dal sacerdote cattolico eritreo Mosè Zerai. Ciascuno ha versato al racket 2.000 dollari. Ma i trafficanti ne pretendono altri 8.000.

«Gli eritrei – racconta don Mosè – mi hanno raccontato di aver lasciato Tri¬poli per raggiungere Israele dall’Egitto. Ma nel corso del viaggio i trafficanti hanno tradito gli accordi e il prezzo è aumentato. Così li hanno sequestrati». Sulla loro drammatica condizione sappiamo solo quanto hanno raccontato al prete. «Dicono di trovarsi nel Sinai, segregati dai beduini nelle case nel deserto, ma non sanno dire dove perché sono stati incappucciati durante gli spostamenti. Da un mese sono legati con le catene ai piedi, come si faceva nel commercio degli schiavi, continuamente minacciati e da 20 giorni non toccano acqua per lavarsi. Vi sono anche donne debilitate dalla mancanza di cibo e dalla scarsa igiene».

Non sono i primi a subire questa sor¬te. Questa forma di sequestro che sfrutta la disperazione dei profughi è redditizia. Già un anno fa l’agenzia Fortress Europe segnalava questa nuova rotta che parte dal Cairo verso la frontiera israeliana nel Sinai e dalla quale passano mille persone al mese, quasi tutti eritrei ed etiopi. Nei casi peggiori i passeggeri dopo aver pagato sono abbandonati lungo il confine. «Purtroppo – aggiunge don Mosè – questa situazione è anche frutto della chiusura delle frontiere dell’Europa. i richiedenti asilo provenienti dal Cor¬no D’Africa non hanno alternative e si affidano ai sensali di carne umana». Ieri il senatore Pietro Marcenaro, presidente della Commissione straordinaria per i Diritti Umani, ha presentato un’interrogazione urgente al ministro degli Esteri in cui si chiede di verificare la situazione degli 80 eritrei trattenuti in Egitto e di muovere tutti i passi necessari nei confronti del governo del Cairo per salvarli.

Ma torniamo in Libia, dove a luglio e¬splodeva il caso di 205 uomini e 50 donne fuggiti dall’Eritrea. Nel 2009 e nel 2010 avevano tentato di passare per l’antica rotta del Mediterraneo ed erano stati respinti in mare e poi arrestati. Ai primi di giugno, ad esempio, una ventina di eritrei venne intercettata e respinta su un barcone diretto in Italia in circostanze mai chiarite. Videro un’imbarcazione con bandiera italiana e si avvicinarono, ma a bordo c’erano militari libici che li riportarono indietro. Il ritorno fu drammatico. «Una persona è anne¬gata in mare, altri tre che conoscevano l’arabo sono stati malmenati perché si sono ribellati. Da quasi sei mesi nessuno ha più notizie di loro. Una donna e il suo bambino di otto mesi sono stati incarcerati al buio per ore senza ricevere cibo né acqua.». A fine giugno, dopo una rivolta nel centro di detenzione libico di Misurata, i maschi vennero trasferiti nel durissimo carcere di Al Braq, a Sebha, a sud, nel deserto.
Le donne rimasero a Misurata e furono sottoposte a violenze e atti degradanti.

Ma ai primi di luglio qualcuno riuscì ad avvisare don Zerai, che rilanciò la notizia su Habeshia. Allora i 255 vennero rilasciati approfittando della nuova legge varata da Tripoli contro l’immigrazione clandestina che prevedeva una sanatoria, con un permesso provvisorio di tre mesi e il divieto di lasciare la città. Ora, però, i permessi sono scaduti e siamo da capo.

«Chi non è fuggito è intrappolato nel¬le città libiche – chiarisce il sacerdote – senza diritti. In tutto in Libia vi sono un migliaio di eritrei, tutti a luglio han¬no beneficiato della sanatoria. Chi ha potuto si è spostato verso Tripoli o Bengasi e lavora in nero. Per rinnova¬re il permesso devono, però, presentarsi con il passaporto eritreo e un con¬tratto di lavoro. Altrimenti devono rivolgersi alle autorità diplomatiche del loro Paese. Naturalmente non possono farlo in quanto rifugiati».

Chi va in ambasciata rischia infatti la deportazione o vendette contro i con¬giunti rimasti nel Corno d’Africa. Ma, se non rinnovano il permesso, si spalancano le porte delle carceri. «Ho appena ricevuto – racconta il prete – chiamate che riferiscono di retate della polizia casa per casa. E tornare in quelle prigioni è terribile: vivono ammassati e senza potersi lavare, sono maltrattati. Molte donne sono state violentate e messe incinta dalle guardie carcerarie ». Chi può fugge allora dall’inferno, come gli 80 ora però imprigionati nel Sinai.

Stando alla convenzione sui diritti umani queste persone non sono criminali, ma avrebbero diritto a chiedere asilo e ad essere protette dai governi della civilissima Europa.
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Il Cir: «L’ultima speranza è l’Unione europea»


A novembre sembra essere calata una pietra tombale sulle speranze dei rifugiati eritrei bloccati in Libia. Ma se l’Ue fa la sua parte, non è ancora detta l’ultima parola.

Ricapitoliamo. Per la legge libica non esistono "rifugiati", solo immigrati regolari o no. Ad oggi quello di Tripoli è l’unico governo africano a non aver mai siglato la convenzione di Ginevra del 1951 sui diritti umani che riconosce il diritto d’asilo. La politica del colonnello Gheddafi è questa e per ora non cambia. E dato che non esistono rifugiati, il governo lo scorso 8 giugno ha intimato all’Acnur, l’Alto commissariato delle Nazioni U¬nite per i rifugiati di chiudere l’ufficio, in seguito riaperto solo per i casi pregressi. Dallo scorso giugno l’unica organizzazione umanitaria occidentale rimasta a Tripoli è il Consiglio italiano per i rifugiati, Cir, partner dell’Acnur, che opera attualmente con una ong libica. Al direttore, Cristopher Hein, chiediamo cosa è cambiato in Libia in questo mese di novembre.

Quali prospettive ci sono che l’Acnur riapra l’ufficio tripolitano e torni ad analizzare le pratiche dei rifugiati?

Le autorità di Tripoli il 12 novembre hanno respinto a Ginevra le raccomandazioni dell’Onu di adottare una legislazione sull’asilo e di firmare un’intesa sulla pre¬senza dell’Alto commissariato nel Paese. La Libia ha respinto tra l’altro anche la raccomandazione di abolire la pena di morte e di garantire l’uguaglianza delle don¬ne davanti alla legge e nei fatti. Al momento mi sembra difficile fare previsioni.

Cosa è cambiato giuridicamente per gli eritrei?

Rispetto allo scorso luglio il loro permesso temporaneo è scaduto e devono ripresentarsi alla polizia con un documento del Paese d’origine che dimostri la loro identità. Questo esclude i profughi eritrei la cui situazione ora è tornata preoccupante.

Cosa rischiano?

Il carcere per il reato di clandestinità. Qualcuno per disperazione è fuggito in Egitto, dove ora sappiamo cosa rischiano, o è tornato in Sudan, le cui autorità agiscono a intermittenza: a volte sono tolleranti, altre li rimpatriano condannandoli a morte o ai lavori forzati per diserzione.

Ma dalle trattative in corso con l’Onu non può venire qualche spiraglio?

Al momento tutto pare fermo sul fronte del Palazzo di vetro. Guardo invece con maggiore interesse agli sviluppi dei rapporti con l’Ue. La commissaria europea per l’immigrazione Maelmstrom ha di recente con¬cluso un accordo di circa 50-60 milioni di euro con la Libia. Inoltre è imminente il vertice di Tripoli tra Unione europea e Unione africana dove si parlerà anche di flussi migratori. In questa fase ai libici interessa raggiungere un’intesa con l’Europa che riguardi anche il commercio e il turismo. Ma è chiaro che Bruxelles non può stringere accordi commerciali con un Paese che non garantisce il rispetto dei diritti umani.
Le speranze per i rifugiati possono quindi venire dalle pressioni europee.

Oggi sono cambiate le rotte africane verso la Libia?

Gli arrivi continuano, in particolare dai Paesi del Corno d’Africa, ma in misura minore. C’è chi tenta di spostarsi verso l’Egitto per poi raggiungere l’Europa verso la Turchia. C’è stato uno spostamento di somali verso il Sudafrica, ma quello Stato l’anno scorso ha avuto il maggior numero di rifugiati e probabilmente è saturo.

Paolo Lambruschi
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Per il presidente del Consiglio per i rifugiati le trattative con l’Onu sono a un punto morto, mentre al vertice tra Ue e Unione africana si dovrebbe discutere di migrazioni

martedì 16 novembre 2010

Santa Francesca Cabrini-Avvenire 14 novembre 2010



La maestra che riscattò gli italiani d’America


DI ELIO GUERRIERO

« Gli italiani qui sono trattati come schiavi ». Diceva così madre Cabrini al primo impatto con la realtà americana verso il 1890. Partita da Lodi su impulso del vescovo di Piacenza, don Giovanni Battista Scalabrini e di Leone XIII, due tra gli spiriti più sensibili alla questione sociale e al disagio dei migranti italiani all’estero, aveva aperto una scuola nei quartieri più degradati di New York. Terminate le lezioni, come già faceva nei paesi del lodigiano, non rimaneva nella tranquillità del piccolo appartamento che condivideva con le sue discepole, ma vagava per la città entrando senza paura in ambienti spaventosi per miseria e violenza. Poté allora constatare che le richieste erano enormi e le sue risorse misere. Non si perse d’animo. Con spirito imprenditoriale mise a punto una tecnica che presto diede risultati insperati. Si recava dagli italiani che avevano fatto fortuna e li convinceva a farsi carico delle difficoltà dei più poveri. Le sue argomentazioni: si guadagnavano la riconoscenza dei connazionali, li aiutavano a inserirsi nel crogiolo delle etnie e delle culture presenti in America, il famoso melting pot, tutti insieme guadagnavano di prestigio nella società. Per ottenere questi risultati erano importanti le scuole e una formazione adeguata. Queste proposte erano avanzate con l’entusiasmo di una trascinatrice. Ha testimoniato la moglie del console italiano: dopo le prime fondazioni, la madre «non chiedeva. Erano gli ammiratori della sua opera che si sentivano spinti ad aiutarla ». Poté fondare allora un gran numero di scuole strategicamente sparse in tutti gli Stati Uniti.

Né l’opera della Cabrini si fermò al Nord. Già nel 1891 un viaggio avventuroso la portò in Nicaragua dove poté aprire diverse scuole. Al ritorno passò da New Orleans dove la comunità italiana viveva in una situazione di tensione e disagio. La madre la riorganizzò in 4 o 5 mesi. Seguirono tre viaggi in Argentina e uno in Brasile sempre con lo scopo di aprire delle case dell’istituto e delle scuole per l’integrazione degli emigranti italiani nella società americana.

All’azione in campo scolastico, seguì l’intervento in ambito sanitario. L’ospedale Columbus di New York, da poco fondato, correva il rischio di chiudere per fallimento. Madre Cabrini lo rilevò e lo dotò di attrezzature scientifiche all’avanguardia. In pochi anni il Columbus era diventato uno dei più importanti istituti medici della metropoli. L’ultimo campo di azione della madre furono le carceri dove gli italiani, di umili origini e con scarse conoscenze della lingua, erano impossibilitati a difendersi. Le suore di madre Cabrini riuscirono a riaprire alcuni processi ingiusti e a ripristinare i rapporti dei detenuti con le famiglie.

Oggi la stazione Centrale di Milano viene dedicata a santa Francesca Cabrini, patrona degli emigranti. Un gesto simbolico che acquisterà pienezza di significato se accompagnato dalla strategia dell’accoglienza basata sui cardini individuati dal genio della santa: scuola dell’integrazione, ospedali d’avanguardia, carceri a dimensione umana. La carità immagina ed edifica una città armoniosa in cui possano convivere in pace uomini di razze e culture diverse.