Domenica 19 Settembre 2010, Il Gazzettino
Una democrazia fondata sui sondaggi
di Romano Prodi
L’Europa è un’ “Unione di minoranze”. Questa definizione così bella e sintetica mi fu rivolta da un parlamentare appartenente a una piccola minoranza etnica di uno dei nuovi paesi che stava entrando nell’Unione Europea.
E con commovente semplicità il parlamentare continuò il suo discorso spiegando che suo nonno era stato perseguitato perché appartenente a una minoranza etnica e suo padre era stato esiliato per lo stesso motivo. Ed egli voleva perciò che il suo paese entrasse nell’Unione Europea perché essa è un’Unione di minoranze.
In tutti i miei discorsi successivi ho fatta mia questa definizione perché essa ha un duplice significato. Il primo è un significato politico e che cioè nessun paese, per quanto grande esso sia e per quanto forte possa essere la sua economia, potrà dominare sugli altri ed essere il padrone del continente. Ed è questa garanzia che ha reso possibile lo sviluppo, la pace e la solidarietà del mezzo secolo di storia che ci sta alle spalle. Il secondo significato è ancora più forte, e che cioè tutti i cittadini europei sono uguali e non possono essere discriminati per la loro appartenenza a una razza o a una religione.
Il ruolo che l’Europa ha nel mondo è proprio quello di assicurare che il paese potente non opprimerà mai quello debole e una comunità potente non opprimerà quella debole. Riguardo al primo aspetto i nostri governi non sembrano più volere prendere in considerazione la necessità di cooperare fra di loro riconoscendo alle istituzioni comunitarie il ruolo di proposta per le evoluzioni future del progetto europeo e il ruolo di arbitro nelle controversie presenti. Da queste evoluzioni negative sono nate le difficoltà che hanno trasformato il modesto problema greco in un pericolo per tutta l’Europa.
Le decisioni del presidente francese nei confronti dei rom hanno messo in crisi il secondo pilastro della nostra convivenza. Con esse infatti si colpiscono non le singole persone in quanto colpevoli di reato ma un’intera comunità in quanto ritenuta depositaria di valori inferiori. Nessuno si nasconde i problemi e le tensioni che i campi nomadi provocano, ma tutti debbono essere altrettanto consapevoli che la soluzione non può essere quella di cacciare via indiscriminatamente tutti i nomadi calpestando i loro diritti e gettando i loro problemi sulle spalle di paesi ancora più impreparati a risolverli e dai quali perciò saranno ancora una volta costretti a fuggire e a ritornare ancora più poveri e risentiti. La Commissione Europea aveva, all’inizio del decennio, proposto un grande progetto di intervento per affrontare in modo positivo e cooperativo questo problema che coinvolge milioni di persone e tutti i paesi dell’Unione. Il presidente francese e, al suo seguito, il governo italiano pensano invece che sia più giusto seguire i sondaggi di opinione che non garantire a tutti il sacrosanto diritto di libera circolazione, riconoscendo naturalmente alle autorità non solo il diritto ma il dovere di reprimere i reati e di custodire la sicurezza dei propri cittadini. Tutti sono consapevoli che, con queste decisioni, i problemi saranno in futuro più gravi e le soluzioni più difficili, ma è certo politicamente più conveniente ottenere per sé un vantaggio oggi mentre altri dovranno risolvere le tragedie di domani. E’ ormai l’eterno e drammatico problema della nostra democrazia che, vivendo sui sondaggi, diventa per definizione incapace di affrontare i problemi futuri. Una deriva che lascia ai successori problemi sempre più gravi ed un’eredità sempre più difficile da gestire. Una democrazia in cui i responsabili del potere non sono più in grado di esercitare il loro dovere di leadership perchè sono convinti che fare le cose giuste, anche se sgradite, sia solo un modo per perdere il proprio potere personale. Un modo di governare che obbliga di conseguenza ad aumentare il contenuto di demagogia e di manipolazione, entrambi necessari per indebolire lo spirito critico e la reazione morale che dovrebbe naturalmente conseguire dall’osservazione di queste decisioni. Si può rispondere che queste sono le regole della democrazia moderna. Ma se queste sono le regole allora bisogna prendere sul serio l’osservazione di un alto esponente politico cinese alla fine di una conversazione sui processi decisionali del mondo contemporaneo: “Sono molto preoccupato per il futuro della vostra democrazia”.
Romano Prodi
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lunedì 20 settembre 2010
L'equivoco sui Rom
Duri o buonisti l'equivoco sui rom
di Giuliano Amato Il sole 24 Ore 19 settembre 2010
Serve solo a suscitare emozioni contrapposte dividersi in duri e buonisti sulla questione dei Rom. La avvertiamo insieme come un rischio per la nostra sicurezza e come una macchia per la nostra coscienza ed è solo dipanando questa matassa e separandone i fili che riusciremo a venirne a capo. In gioco infatti c'è di sicuro la nostra difesa dalla piccola e non sempre piccola criminalità che spesso alligna nei campi nomadi, ma c'è anche la libertà di movimento dei cittadini comunitari (quando si tratta di Rom di provenienza comunitaria) e ci sono i diritti di una minoranza, che dovremmo riconoscere e che ancora non abbiamo riconosciuto.
Procediamo con ordine. Ai Rom e ai loro modi di vita eravamo abituati da decenni, ma c'è stata un'impennata delle loro trasmigrazioni verso l'Italia, la Francia e la Spagna con l'ingresso nell'Unione dei paesi dell'Est europeo nei quali le loro condizioni di vita erano divenute sempre più grame. Possiamo restituirli a quei paesi per liberarci dei loro accampamenti degradati e dei pericoli che vi scorgiamo? La materia è regolata dalla direttiva europea 38 del 2004, che è appunto quella sulla libertà di movimento dei cittadini comunitari.
È una direttiva tutta scritta in chiave di garanzia e anche se contiene disposizioni per l'espulsione, con divieto di rientro, di coloro che rappresentino una «minaccia reale, attuale e sufficientemente grave da pregiudicare un interesse fondamentale della società», è molto attenta nel delimitare il caso.
Precisa che l'esistenza di condanne penali non giustifica da sola la misura, che non la giustificano neppure «ragioni di prevenzione generale» e che, in particolare, non la si può adottare per motivi economici, e cioè per mancanza di mezzi di sussistenza. Se un cittadino comunitario ne risulta sprovvisto dopo tre mesi dal suo ingresso in un altro paese, può essere allontanato, ma non gli si può vietare il rientro.
L'ispirazione della normativa è trasparente. La si può accusare di non aver previsto quei massicci spostamenti di poveri diavoli, spesso frammisti a male intenzionati, che in concreto ci siamo trovati addosso.
Sarebbe anche ragionevole emendarla nel senso che lo stesso allontanamento per motivi economici sia accompagnato dal divieto di rientro. Ma nessuno - spero - oserebbe toccare il fondamentalissimo principio che una cosa è la mancanza di mezzi, una cosa diversa è la pericolosità sociale e che, in ogni caso, qualunque provvedimento deve scaturire da una motivazione che riguarda singole persone, non gruppi sociali.
Immaginiamo comunque di avere tutti i mezzi legali per liberarci di chi è pericoloso e anche per allontanare con più efficacia chi non ha mezzi di sussistenza. Avremmo così risolto la questione dei Rom? I Rom non sono una congerie di diseredati che si ritrovano nei campi uniti solo dalle loro precarie condizioni di vita. Sono una minoranza con tradizioni culturali e linguistiche che, per cominciare, include italiani e non italiani, comunitari e non comunitari, cristiani e musulmani, cattolici e ortodossi. Hanno vissuto per secoli allevando cavalli ed eccellendo in attività artigiane e di manutenzione, che li hanno resi in passato fiorenti. Poi si sono trovati in un mondo che non aveva più bisogno di loro, le loro comunità hanno vissuto fra difficoltà crescenti e da un lato si è estesa nelle loro file la piccola criminalità come fonte di sussistenza, dall'altro molti di loro hanno cominciato a divenire stanziali e a integrarsi nei modi di vita che noi consideriamo normali.
Decisivo è diventato a questo punto l'atteggiamento verso di loro delle nostre società, cioè di tutti noi. I diversi hanno sempre destato diffidenza, a volte vere e proprie persecuzioni. E non ne sono stati indenni i Rom, 500mila dei quali furono vittime delle camere a gas naziste insieme agli ebrei. Ma questo, in molti paesi, non è bastato a farli vedere come vittime, a cogliere i loro nuovi bisogni, ad accettarli dunque via via che loro stessi venivano accettando forme nuove d'integrazione, che pure salvaguardassero la loro identità. Eppure, dove la si è praticata, l'integrazione funziona.
È accaduto così che nelle sedi europee abbiamo approvato raccomandazioni contro il razzismo, risoluzioni per la scolarità dei bambini Rom e stanziamenti sul bilancio comunitario per progetti d'integrazione. Poi alcuni paesi (come documenta Leonardo Martinelli nel suo articolo di venerdì su questo giornale) sono stati coerenti, mentre noi in Italia, abbiamo fatto nel 1999 una legge per la tutela delle minoranze, ma l'abbiamo limitata alle minoranze territoriali e ne abbiamo per ciò stesso escluso i rom, lasciandoli nel loro limbo.
Quando ero ministro dell'Interno conobbi un ragazzo Rom di diciotto anni. La sua famiglia era fuggita dalla Bosnia durante la guerra dei primi anni 90 e proprio a causa della guerra erano bruciati gli atti dello stato civile da cui poteva risultare la sua cittadinanza. Da noi era andato a scuola e ora, dopo diciotto anni, o gli si dava un permesso di soggiorno, o lo si doveva espellere, mandandolo non si sa dove. Ma il permesso di soggiorno non poteva essere fatto, perché non aveva una cittadinanza, legalmente non esisteva.
Lo salvai dall'espulsione, ma mi convinsi una volta di più che una legge sulla minoranza Rom era quello che mancava. Cominciai a lavorarci ma, come già ho raccontato in un articolo precedente, venni invitato dalla mia maggioranza ad aspettare il momento più opportuno e poi, all'inizio ormai del 2008, cadde il governo.
Ecco, siamo a questo punto, salvo gli episodi di positiva integrazione in non molti comuni italiani. Chissà quanti sono i ragazzi come quello di cui ho parlato che, a differenza di lui, sono finiti nei gorghi delle procedure di espulsione, anche se non eseguite perché di fatto non eseguibili. Si staranno nascondendo in qualche campo, vivranno di espedienti e di sicuro si sentiranno più solidali con chi fa spedizioni notturne per asportare il rame dalle linee ferroviarie che non con tutti noi, "gage" ostili che cerchiamo solo di evitarli. Le visite che ho fatto nei campi Rom mi hanno dato più di una prova dell'errore che facciamo usando solo la durezza e usandola in modo indifferenziato. L'unico risultato è che si rinserrano le fila e viene frustrato così il desiderio (formulatomi esplicitamente) di non vivere più fianco a fianco con i ladri e i delinquenti che invece spadroneggiano nel necessitato silenzio degli altri. Immagino che sia quello che sta accadendo in questi giorni in Francia.
Torno così al punto di partenza. Non facciamone una partita fra duri e buonisti, perché comunque finisca noi la perderemmo. La partita si vince se la si gioca su entrambi i fronti e, se lo si fa, noi stessi possiamo uscirne più soddisfatti. Vogliamo la sicurezza, ma non ci piace sentirci la coscienza sporca. O no?
©RIPRODUZIONE RISERVATA
di Giuliano Amato Il sole 24 Ore 19 settembre 2010
Serve solo a suscitare emozioni contrapposte dividersi in duri e buonisti sulla questione dei Rom. La avvertiamo insieme come un rischio per la nostra sicurezza e come una macchia per la nostra coscienza ed è solo dipanando questa matassa e separandone i fili che riusciremo a venirne a capo. In gioco infatti c'è di sicuro la nostra difesa dalla piccola e non sempre piccola criminalità che spesso alligna nei campi nomadi, ma c'è anche la libertà di movimento dei cittadini comunitari (quando si tratta di Rom di provenienza comunitaria) e ci sono i diritti di una minoranza, che dovremmo riconoscere e che ancora non abbiamo riconosciuto.
Procediamo con ordine. Ai Rom e ai loro modi di vita eravamo abituati da decenni, ma c'è stata un'impennata delle loro trasmigrazioni verso l'Italia, la Francia e la Spagna con l'ingresso nell'Unione dei paesi dell'Est europeo nei quali le loro condizioni di vita erano divenute sempre più grame. Possiamo restituirli a quei paesi per liberarci dei loro accampamenti degradati e dei pericoli che vi scorgiamo? La materia è regolata dalla direttiva europea 38 del 2004, che è appunto quella sulla libertà di movimento dei cittadini comunitari.
È una direttiva tutta scritta in chiave di garanzia e anche se contiene disposizioni per l'espulsione, con divieto di rientro, di coloro che rappresentino una «minaccia reale, attuale e sufficientemente grave da pregiudicare un interesse fondamentale della società», è molto attenta nel delimitare il caso.
Precisa che l'esistenza di condanne penali non giustifica da sola la misura, che non la giustificano neppure «ragioni di prevenzione generale» e che, in particolare, non la si può adottare per motivi economici, e cioè per mancanza di mezzi di sussistenza. Se un cittadino comunitario ne risulta sprovvisto dopo tre mesi dal suo ingresso in un altro paese, può essere allontanato, ma non gli si può vietare il rientro.
L'ispirazione della normativa è trasparente. La si può accusare di non aver previsto quei massicci spostamenti di poveri diavoli, spesso frammisti a male intenzionati, che in concreto ci siamo trovati addosso.
Sarebbe anche ragionevole emendarla nel senso che lo stesso allontanamento per motivi economici sia accompagnato dal divieto di rientro. Ma nessuno - spero - oserebbe toccare il fondamentalissimo principio che una cosa è la mancanza di mezzi, una cosa diversa è la pericolosità sociale e che, in ogni caso, qualunque provvedimento deve scaturire da una motivazione che riguarda singole persone, non gruppi sociali.
Immaginiamo comunque di avere tutti i mezzi legali per liberarci di chi è pericoloso e anche per allontanare con più efficacia chi non ha mezzi di sussistenza. Avremmo così risolto la questione dei Rom? I Rom non sono una congerie di diseredati che si ritrovano nei campi uniti solo dalle loro precarie condizioni di vita. Sono una minoranza con tradizioni culturali e linguistiche che, per cominciare, include italiani e non italiani, comunitari e non comunitari, cristiani e musulmani, cattolici e ortodossi. Hanno vissuto per secoli allevando cavalli ed eccellendo in attività artigiane e di manutenzione, che li hanno resi in passato fiorenti. Poi si sono trovati in un mondo che non aveva più bisogno di loro, le loro comunità hanno vissuto fra difficoltà crescenti e da un lato si è estesa nelle loro file la piccola criminalità come fonte di sussistenza, dall'altro molti di loro hanno cominciato a divenire stanziali e a integrarsi nei modi di vita che noi consideriamo normali.
Decisivo è diventato a questo punto l'atteggiamento verso di loro delle nostre società, cioè di tutti noi. I diversi hanno sempre destato diffidenza, a volte vere e proprie persecuzioni. E non ne sono stati indenni i Rom, 500mila dei quali furono vittime delle camere a gas naziste insieme agli ebrei. Ma questo, in molti paesi, non è bastato a farli vedere come vittime, a cogliere i loro nuovi bisogni, ad accettarli dunque via via che loro stessi venivano accettando forme nuove d'integrazione, che pure salvaguardassero la loro identità. Eppure, dove la si è praticata, l'integrazione funziona.
È accaduto così che nelle sedi europee abbiamo approvato raccomandazioni contro il razzismo, risoluzioni per la scolarità dei bambini Rom e stanziamenti sul bilancio comunitario per progetti d'integrazione. Poi alcuni paesi (come documenta Leonardo Martinelli nel suo articolo di venerdì su questo giornale) sono stati coerenti, mentre noi in Italia, abbiamo fatto nel 1999 una legge per la tutela delle minoranze, ma l'abbiamo limitata alle minoranze territoriali e ne abbiamo per ciò stesso escluso i rom, lasciandoli nel loro limbo.
Quando ero ministro dell'Interno conobbi un ragazzo Rom di diciotto anni. La sua famiglia era fuggita dalla Bosnia durante la guerra dei primi anni 90 e proprio a causa della guerra erano bruciati gli atti dello stato civile da cui poteva risultare la sua cittadinanza. Da noi era andato a scuola e ora, dopo diciotto anni, o gli si dava un permesso di soggiorno, o lo si doveva espellere, mandandolo non si sa dove. Ma il permesso di soggiorno non poteva essere fatto, perché non aveva una cittadinanza, legalmente non esisteva.
Lo salvai dall'espulsione, ma mi convinsi una volta di più che una legge sulla minoranza Rom era quello che mancava. Cominciai a lavorarci ma, come già ho raccontato in un articolo precedente, venni invitato dalla mia maggioranza ad aspettare il momento più opportuno e poi, all'inizio ormai del 2008, cadde il governo.
Ecco, siamo a questo punto, salvo gli episodi di positiva integrazione in non molti comuni italiani. Chissà quanti sono i ragazzi come quello di cui ho parlato che, a differenza di lui, sono finiti nei gorghi delle procedure di espulsione, anche se non eseguite perché di fatto non eseguibili. Si staranno nascondendo in qualche campo, vivranno di espedienti e di sicuro si sentiranno più solidali con chi fa spedizioni notturne per asportare il rame dalle linee ferroviarie che non con tutti noi, "gage" ostili che cerchiamo solo di evitarli. Le visite che ho fatto nei campi Rom mi hanno dato più di una prova dell'errore che facciamo usando solo la durezza e usandola in modo indifferenziato. L'unico risultato è che si rinserrano le fila e viene frustrato così il desiderio (formulatomi esplicitamente) di non vivere più fianco a fianco con i ladri e i delinquenti che invece spadroneggiano nel necessitato silenzio degli altri. Immagino che sia quello che sta accadendo in questi giorni in Francia.
Torno così al punto di partenza. Non facciamone una partita fra duri e buonisti, perché comunque finisca noi la perderemmo. La partita si vince se la si gioca su entrambi i fronti e, se lo si fa, noi stessi possiamo uscirne più soddisfatti. Vogliamo la sicurezza, ma non ci piace sentirci la coscienza sporca. O no?
©RIPRODUZIONE RISERVATA
lunedì 23 agosto 2010
Da Ground Zero ai rom, in gioco i diritti dell'uomo
22 agosto 2010
Da Ground Zero ai rom, in gioco i diritti dell'uomo
di Giuliano Amato
La polemica che ha investito Barack Obama, per la sua iniziale presa di posizione a favore della costruzione di una moschea a Ground Zero, e poi l'espulsione dei rom dalla Francia sono solo la spia di un fondamentalissimo problema, che quasi quotidianamente mette in gioco la fedeltà a se stesse delle nostre democrazie. Obama ha fatto un'affermazione che in sé e per sé dovremmo ritenere ovvia: «Noi siamo l'America, questi sono i nostri valori e ad essi ci dobbiamo attenere».
Eppure, nel contesto di sentimenti popolari che dopo l'11 settembre identificano con il terrorismo il mondo musulmano, l'affermazione del presidente americano è stata contrastata nel suo stesso partito, timoroso di perdere ulteriori consensi.
I rom sono una minoranza con storia, tradizioni, aspettative. Le condizioni in cui vivono da decenni in società che non hanno più bisogno dei loro cavalli e delle loro qualità artigiane, hanno accentuato la loro segregazione, il degrado dei loro insediamenti, la microcriminalità come fonte di sussistenza. Le maggioranze vogliono solo liberarsene e i governi, nonostante le convenzioni e i trattati che per ragioni di civiltà prevedono tutt'altro, prima o poi le assecondano. E proprio qui è il punto. La democrazia è fondata su principi di civiltà che sono la sua ragion d'essere e la distinguono da altri regimi. Ciò nondimeno in essa le ragioni del consenso e le ragioni della (sua) civiltà finiscono molto spesso per divergere.
Volete qualche altro esempio tratto dalla nostra esperienza in Italia? Intanto gli stessi rom, e lo sappiamo bene. Ricordo solo che la maggioranza di centro-sinistra fu molto tiepida con me quando volevo un disegno di legge per riconoscere i loro diritti e togliere tanti di loro dall'assurdo limbo di una vera e propria inesistenza giuridica (che per ciò stesso non permette di trovare lavoro). Poi ci sono le carceri, che nella patria di Beccaria dovrebbero privare il detenuto della sola libertà personale, mai degli altri diritti che discendono dalla sua dignità di essere umano. Ma in molte delle nostre carceri, non fosse altro che per il loro sovraffollamento, quei diritti sono violati ogni ora del giorno e della notte. Eppure il tema non è mai fra quelli per cui si muovono le maggioranze, che guardano alla questione con tutt'altre finalità.
I somali che tentano di raggiungere le nostre coste sono persone che avrebbero in Italia diritto d'asilo. Noi li fermiamo prima che arrivino, chiediamo alla Libia di occuparsene e non facciamo l'unica cosa che la nostra civiltà ci chiederebbe di fare: andare noi a verificare in Libia l'autenticità della loro posizione (o farla verificare lì dall'organizzazione delle migrazioni) e portarli in Italia. Le ragioni del consenso non consentono a nessuno dei grandi partiti di sostenere una tale soluzione.
Così come le ragioni del consenso impediscono di prendere atto che gli stessi immigrati illegali, i paria della nostra comunità nazionale, sono titolari di diritti e con loro lo sono i loro figli, giacché l'istruzione, la salute, l'assistenza legale, la sicurezza sul lavoro sono diritti non del cittadino, ma della "persona". Gli immigrati illegali sono almeno persone? Nessuno osa negarlo, e tuttavia quanti di noi sono pronti a trarne le conseguenze?
C'è chi è pronto a farlo, ma sono sempre i meno, mai i più. Non a caso i temi che ho ricordato sono oggetto di campagne di minoranza, come quelle del movimento radicale, da anni campanello d'allarme delle nostre coscienze. E non a caso nell'assetto istituzionale delle democrazie si distingue fra istituzioni maggioritarie elettive, nelle quali prevalgono le ragioni del consenso, e istituzioni non maggioritarie di garanzia, in primo luogo le corti, nelle quali dovrebbero prevalere le ragioni della civiltà codificate proprio in quei diritti a cui le maggioranze sono meno sensibili.
È già molto per le ragioni della civiltà se vi sono minoranze libere di sostenerle e giudici abilitati a farle valere, quando esse si incarnano in obblighi e diritti. Ma una democrazia finisce prima o poi per ammalarsi se le maggioranze non si aprono mai alle minoranze e disattendono le decisioni dei giudici, che ne contestano le scelte in nome di un principio superiore.
Insomma, i famosi checks and balances funzionano a dovere, e con loro funziona a dovere il sistema democratico, se ci sono interazione e quindi reciproca permeabilità fra le istanze di cui essi sono portatori e quelle di cui si fanno carico le maggioranze. Se c'è invece impermeabilità e quindi divaricazione perdurante, alla lunga tutto il sistema si deteriora, perché le minoranze o si estremizzano o si estinguono e i giudici, che non possono distanziarsi senza limiti dalla sensibilità delle maggioranze, finiscono per acquietarsi.
I leader illuminati delle minoranze lo sanno e sanno perciò trovare mediazioni e compromessi con le maggioranze. E anche la giustizia possiede le formule interpretative che permettono di salvaguardare i diritti individuali meno graditi alle stesse maggioranze, lasciando un qualche spazio ai limiti voluti da queste. Si pensi alla Corte europea dei diritti dell'uomo, che distingue fra diritti non suscettibili di alcun bilanciamento, come il diritto a non subire torture, e diritti, come quello a non vedersi sequestrato un film, davanti ai quali possono in certi casi prevalere i sentimenti religiosi dominanti nella comunità interessata.
Il problema è se flessibili sono anche le maggioranze e pronte esse stesse a interagire. Gli esempi per la verità non mancano e uno recente è la Spagna, dove la Corte costituzionale aveva censurato nel 2007 una legge che comprimeva quasi tutti i diritti degli immigrati illegali (salvo la scuola per i loro bambini) e una nuova disciplina è stata approntata nel 2010 che accoglie in buona parte le sue preoccupazioni.
Si tratta dunque di un circolo virtuoso possibile, che tale rimane però sino a quando nelle maggioranze prevalgono le qualità che trovereste naturali in una democrazia, la misura e il realismo. Ma attenti. Già 45 anni fa Richard Hofstadter ci spiegò la tendenza della politica, negli stessi paesi democratici, a diventare - lui diceva - paranoica e quindi a puntare per affermarsi sulla denuncia dei complotti, sulla demonizzazione dei nemici e sulla diffusione dell'ostilità e della paura ("The Paranoid Style in American Politics", New York 1965). Quando ciò accade, l'assimilazione fra talune minoranze e il nemico è la cosa più facile. E su chi conduce battaglie di civiltà cade prima il silenzio che isola, poi l'ostilità che comprime.
Un metro dunque per misurare la salute delle nostre democrazie lo abbiamo. Se ancora c'è chi si batte per ragioni di civiltà che contrastano con le ragioni del consenso, vuol dire che c'è vita. Ma se intorno c'è e rimane un pervicace silenzio, forse stiamo già entrando in paranoia.
22 agosto 2010
Da Ground Zero ai rom, in gioco i diritti dell'uomo
di Giuliano Amato
La polemica che ha investito Barack Obama, per la sua iniziale presa di posizione a favore della costruzione di una moschea a Ground Zero, e poi l'espulsione dei rom dalla Francia sono solo la spia di un fondamentalissimo problema, che quasi quotidianamente mette in gioco la fedeltà a se stesse delle nostre democrazie. Obama ha fatto un'affermazione che in sé e per sé dovremmo ritenere ovvia: «Noi siamo l'America, questi sono i nostri valori e ad essi ci dobbiamo attenere».
Eppure, nel contesto di sentimenti popolari che dopo l'11 settembre identificano con il terrorismo il mondo musulmano, l'affermazione del presidente americano è stata contrastata nel suo stesso partito, timoroso di perdere ulteriori consensi.
I rom sono una minoranza con storia, tradizioni, aspettative. Le condizioni in cui vivono da decenni in società che non hanno più bisogno dei loro cavalli e delle loro qualità artigiane, hanno accentuato la loro segregazione, il degrado dei loro insediamenti, la microcriminalità come fonte di sussistenza. Le maggioranze vogliono solo liberarsene e i governi, nonostante le convenzioni e i trattati che per ragioni di civiltà prevedono tutt'altro, prima o poi le assecondano. E proprio qui è il punto. La democrazia è fondata su principi di civiltà che sono la sua ragion d'essere e la distinguono da altri regimi. Ciò nondimeno in essa le ragioni del consenso e le ragioni della (sua) civiltà finiscono molto spesso per divergere.
Volete qualche altro esempio tratto dalla nostra esperienza in Italia? Intanto gli stessi rom, e lo sappiamo bene. Ricordo solo che la maggioranza di centro-sinistra fu molto tiepida con me quando volevo un disegno di legge per riconoscere i loro diritti e togliere tanti di loro dall'assurdo limbo di una vera e propria inesistenza giuridica (che per ciò stesso non permette di trovare lavoro). Poi ci sono le carceri, che nella patria di Beccaria dovrebbero privare il detenuto della sola libertà personale, mai degli altri diritti che discendono dalla sua dignità di essere umano. Ma in molte delle nostre carceri, non fosse altro che per il loro sovraffollamento, quei diritti sono violati ogni ora del giorno e della notte. Eppure il tema non è mai fra quelli per cui si muovono le maggioranze, che guardano alla questione con tutt'altre finalità.
I somali che tentano di raggiungere le nostre coste sono persone che avrebbero in Italia diritto d'asilo. Noi li fermiamo prima che arrivino, chiediamo alla Libia di occuparsene e non facciamo l'unica cosa che la nostra civiltà ci chiederebbe di fare: andare noi a verificare in Libia l'autenticità della loro posizione (o farla verificare lì dall'organizzazione delle migrazioni) e portarli in Italia. Le ragioni del consenso non consentono a nessuno dei grandi partiti di sostenere una tale soluzione.
Così come le ragioni del consenso impediscono di prendere atto che gli stessi immigrati illegali, i paria della nostra comunità nazionale, sono titolari di diritti e con loro lo sono i loro figli, giacché l'istruzione, la salute, l'assistenza legale, la sicurezza sul lavoro sono diritti non del cittadino, ma della "persona". Gli immigrati illegali sono almeno persone? Nessuno osa negarlo, e tuttavia quanti di noi sono pronti a trarne le conseguenze?
C'è chi è pronto a farlo, ma sono sempre i meno, mai i più. Non a caso i temi che ho ricordato sono oggetto di campagne di minoranza, come quelle del movimento radicale, da anni campanello d'allarme delle nostre coscienze. E non a caso nell'assetto istituzionale delle democrazie si distingue fra istituzioni maggioritarie elettive, nelle quali prevalgono le ragioni del consenso, e istituzioni non maggioritarie di garanzia, in primo luogo le corti, nelle quali dovrebbero prevalere le ragioni della civiltà codificate proprio in quei diritti a cui le maggioranze sono meno sensibili.
È già molto per le ragioni della civiltà se vi sono minoranze libere di sostenerle e giudici abilitati a farle valere, quando esse si incarnano in obblighi e diritti. Ma una democrazia finisce prima o poi per ammalarsi se le maggioranze non si aprono mai alle minoranze e disattendono le decisioni dei giudici, che ne contestano le scelte in nome di un principio superiore.
Insomma, i famosi checks and balances funzionano a dovere, e con loro funziona a dovere il sistema democratico, se ci sono interazione e quindi reciproca permeabilità fra le istanze di cui essi sono portatori e quelle di cui si fanno carico le maggioranze. Se c'è invece impermeabilità e quindi divaricazione perdurante, alla lunga tutto il sistema si deteriora, perché le minoranze o si estremizzano o si estinguono e i giudici, che non possono distanziarsi senza limiti dalla sensibilità delle maggioranze, finiscono per acquietarsi.
I leader illuminati delle minoranze lo sanno e sanno perciò trovare mediazioni e compromessi con le maggioranze. E anche la giustizia possiede le formule interpretative che permettono di salvaguardare i diritti individuali meno graditi alle stesse maggioranze, lasciando un qualche spazio ai limiti voluti da queste. Si pensi alla Corte europea dei diritti dell'uomo, che distingue fra diritti non suscettibili di alcun bilanciamento, come il diritto a non subire torture, e diritti, come quello a non vedersi sequestrato un film, davanti ai quali possono in certi casi prevalere i sentimenti religiosi dominanti nella comunità interessata.
Il problema è se flessibili sono anche le maggioranze e pronte esse stesse a interagire. Gli esempi per la verità non mancano e uno recente è la Spagna, dove la Corte costituzionale aveva censurato nel 2007 una legge che comprimeva quasi tutti i diritti degli immigrati illegali (salvo la scuola per i loro bambini) e una nuova disciplina è stata approntata nel 2010 che accoglie in buona parte le sue preoccupazioni.
Si tratta dunque di un circolo virtuoso possibile, che tale rimane però sino a quando nelle maggioranze prevalgono le qualità che trovereste naturali in una democrazia, la misura e il realismo. Ma attenti. Già 45 anni fa Richard Hofstadter ci spiegò la tendenza della politica, negli stessi paesi democratici, a diventare - lui diceva - paranoica e quindi a puntare per affermarsi sulla denuncia dei complotti, sulla demonizzazione dei nemici e sulla diffusione dell'ostilità e della paura ("The Paranoid Style in American Politics", New York 1965). Quando ciò accade, l'assimilazione fra talune minoranze e il nemico è la cosa più facile. E su chi conduce battaglie di civiltà cade prima il silenzio che isola, poi l'ostilità che comprime.
Un metro dunque per misurare la salute delle nostre democrazie lo abbiamo. Se ancora c'è chi si batte per ragioni di civiltà che contrastano con le ragioni del consenso, vuol dire che c'è vita. Ma se intorno c'è e rimane un pervicace silenzio, forse stiamo già entrando in paranoia.
22 agosto 2010
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