sabato 27 novembre 2010

Avvenire 25 novembre 2010-Immigrati respinti dall'Italia


Cominciamo con la drammatica vicenda dei profughi eritrei – respinti prima che potessero approdare in Italia e ora in situazione precaria in Libia – una serie di pagine di inchiesta su 'che fine hanno fatto' persone la cui sorte è stata al centro dell’attenzione dei media o vicende che hanno sollevato grandi dibattiti nel Paese, salvo poi sparire all’improvviso dagli articoli dei giornali. Pagine per evitare di dimenticare situazioni drammatiche o per capire cosa ha funzionato e cosa no. Pronti a far tesoro anche dei suggerimenti dei lettori.
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I respingimenti, il carcere e le torture

L’ ultimo capitolo di una già lunga odissea comincia il 6 luglio 2010 quando, dopo una settimana di prigionia nel durissimo carcere di Al Braq, in mezzo al deserto, 200cittadini eritrei vennero scarcerati, fu loro concesso un permesso temporaneo e il divieto di lasciare la città di Sebah, 75 chilometri a nord.

Divieto che nessuno ha mai osservato.

Erano arrivati lì dopo un viaggio di 12 ore chiusi in un camion, senza acqua né cibo e con temperature fino a 50 gradi.

Provenivano dal carcere di Misurata, dove già da tempo erano rinchiusi insieme a 50 donne eritree, liberate anche loro il 6 luglio.

Si erano ribellati quando nel centro di detenzione era entrato un diplomatico eritreo per identificarli.

Così era scattata la deportazione, per punizione: da Al Braq non si torna. Le donne no, erano rimaste a Misurata a subire altre violenze e umiliazioni.

La loro colpa? Essere tutti fuggiti da una dittatura che li recluta a vita nell’esercito. E di voler chiedere asilo in Italia passando per il Mediterraneo.

Gli ultimi in ordine di tempo, una ventina, erano stato intercettati domenica 6 giugno scorso in acque internazionali, a circa 20 miglia da Lampedusa, da una nave militare libica, arrivata probabilmente su segnalazione delle autorità italiane o maltesi.

Ad Al Braq nonostante le torture e i continui insulti, i 200 reclusi si sono rifiutati di firmare i fogli di rimpatrio.

Resistere è stata la mossa decisiva per la loro salvezza. L’agenzia Habeshia, che ha mantenuto i contatti con loro diffondendo sul suo blog le notizie in tempo reale, è riuscita a sensibilizzare numerose organizzazioni umanitarie provocando alla fine l’intervento di Roma. (P.Lam.)

le tappe

Da questa estate in cerca di un approdo

50 donne sono state sottoposte a stupri e atti degradanti

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profughi

Una parte degli immigrati respinti dall’Italia ha tentato di raggiungere Israele ma è bloccato nel Sinai. Il resto non ha documenti e finirà in carcere


DI PAOLO LAMBRUSCHI

Prigionieri nel Sinai, in catene co¬me schiavi, ostaggio dei traffi¬canti egiziani. Così è finita una parte consistente, ben 80 dei 255 eritrei che nel luglio scorso avevano rischiato di morire nella famigerata prigione libica di Al Braq, in pieno Sahara, dopo essere stati respinti in mare dall’Italia e poi liberati grazie alla pressione delle organizzazioni umanitarie sul nostro governo. Un mese fa alcuni di loro sono fuggiti dalle sabbie libiche alla volta di Israele, su una delle nuove rotte della disperazione verso l’Europa, che ora incrociano il Medio Oriente e la Turchia, a rischiare di morire in un altro deserto. L’allarme è stato lanciato ieri, esattamente come l’estate scorsa, dal blog dell’agenzia di cooperazione allo sviluppo Habeshia. Secondo la quale ci sono 600 persone in condizioni disperate da oltre un mese nel deserto al confine tra Egitto e Israele, prigioniere del racket. Oltre agli 80 eritrei fuggiti da Tripoli, somali e sudanesi. Tra questi, vi sono anche donne, segnala il blog curato da Roma dal sacerdote cattolico eritreo Mosè Zerai. Ciascuno ha versato al racket 2.000 dollari. Ma i trafficanti ne pretendono altri 8.000.

«Gli eritrei – racconta don Mosè – mi hanno raccontato di aver lasciato Tri¬poli per raggiungere Israele dall’Egitto. Ma nel corso del viaggio i trafficanti hanno tradito gli accordi e il prezzo è aumentato. Così li hanno sequestrati». Sulla loro drammatica condizione sappiamo solo quanto hanno raccontato al prete. «Dicono di trovarsi nel Sinai, segregati dai beduini nelle case nel deserto, ma non sanno dire dove perché sono stati incappucciati durante gli spostamenti. Da un mese sono legati con le catene ai piedi, come si faceva nel commercio degli schiavi, continuamente minacciati e da 20 giorni non toccano acqua per lavarsi. Vi sono anche donne debilitate dalla mancanza di cibo e dalla scarsa igiene».

Non sono i primi a subire questa sor¬te. Questa forma di sequestro che sfrutta la disperazione dei profughi è redditizia. Già un anno fa l’agenzia Fortress Europe segnalava questa nuova rotta che parte dal Cairo verso la frontiera israeliana nel Sinai e dalla quale passano mille persone al mese, quasi tutti eritrei ed etiopi. Nei casi peggiori i passeggeri dopo aver pagato sono abbandonati lungo il confine. «Purtroppo – aggiunge don Mosè – questa situazione è anche frutto della chiusura delle frontiere dell’Europa. i richiedenti asilo provenienti dal Cor¬no D’Africa non hanno alternative e si affidano ai sensali di carne umana». Ieri il senatore Pietro Marcenaro, presidente della Commissione straordinaria per i Diritti Umani, ha presentato un’interrogazione urgente al ministro degli Esteri in cui si chiede di verificare la situazione degli 80 eritrei trattenuti in Egitto e di muovere tutti i passi necessari nei confronti del governo del Cairo per salvarli.

Ma torniamo in Libia, dove a luglio e¬splodeva il caso di 205 uomini e 50 donne fuggiti dall’Eritrea. Nel 2009 e nel 2010 avevano tentato di passare per l’antica rotta del Mediterraneo ed erano stati respinti in mare e poi arrestati. Ai primi di giugno, ad esempio, una ventina di eritrei venne intercettata e respinta su un barcone diretto in Italia in circostanze mai chiarite. Videro un’imbarcazione con bandiera italiana e si avvicinarono, ma a bordo c’erano militari libici che li riportarono indietro. Il ritorno fu drammatico. «Una persona è anne¬gata in mare, altri tre che conoscevano l’arabo sono stati malmenati perché si sono ribellati. Da quasi sei mesi nessuno ha più notizie di loro. Una donna e il suo bambino di otto mesi sono stati incarcerati al buio per ore senza ricevere cibo né acqua.». A fine giugno, dopo una rivolta nel centro di detenzione libico di Misurata, i maschi vennero trasferiti nel durissimo carcere di Al Braq, a Sebha, a sud, nel deserto.
Le donne rimasero a Misurata e furono sottoposte a violenze e atti degradanti.

Ma ai primi di luglio qualcuno riuscì ad avvisare don Zerai, che rilanciò la notizia su Habeshia. Allora i 255 vennero rilasciati approfittando della nuova legge varata da Tripoli contro l’immigrazione clandestina che prevedeva una sanatoria, con un permesso provvisorio di tre mesi e il divieto di lasciare la città. Ora, però, i permessi sono scaduti e siamo da capo.

«Chi non è fuggito è intrappolato nel¬le città libiche – chiarisce il sacerdote – senza diritti. In tutto in Libia vi sono un migliaio di eritrei, tutti a luglio han¬no beneficiato della sanatoria. Chi ha potuto si è spostato verso Tripoli o Bengasi e lavora in nero. Per rinnova¬re il permesso devono, però, presentarsi con il passaporto eritreo e un con¬tratto di lavoro. Altrimenti devono rivolgersi alle autorità diplomatiche del loro Paese. Naturalmente non possono farlo in quanto rifugiati».

Chi va in ambasciata rischia infatti la deportazione o vendette contro i con¬giunti rimasti nel Corno d’Africa. Ma, se non rinnovano il permesso, si spalancano le porte delle carceri. «Ho appena ricevuto – racconta il prete – chiamate che riferiscono di retate della polizia casa per casa. E tornare in quelle prigioni è terribile: vivono ammassati e senza potersi lavare, sono maltrattati. Molte donne sono state violentate e messe incinta dalle guardie carcerarie ». Chi può fugge allora dall’inferno, come gli 80 ora però imprigionati nel Sinai.

Stando alla convenzione sui diritti umani queste persone non sono criminali, ma avrebbero diritto a chiedere asilo e ad essere protette dai governi della civilissima Europa.
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Il Cir: «L’ultima speranza è l’Unione europea»


A novembre sembra essere calata una pietra tombale sulle speranze dei rifugiati eritrei bloccati in Libia. Ma se l’Ue fa la sua parte, non è ancora detta l’ultima parola.

Ricapitoliamo. Per la legge libica non esistono "rifugiati", solo immigrati regolari o no. Ad oggi quello di Tripoli è l’unico governo africano a non aver mai siglato la convenzione di Ginevra del 1951 sui diritti umani che riconosce il diritto d’asilo. La politica del colonnello Gheddafi è questa e per ora non cambia. E dato che non esistono rifugiati, il governo lo scorso 8 giugno ha intimato all’Acnur, l’Alto commissariato delle Nazioni U¬nite per i rifugiati di chiudere l’ufficio, in seguito riaperto solo per i casi pregressi. Dallo scorso giugno l’unica organizzazione umanitaria occidentale rimasta a Tripoli è il Consiglio italiano per i rifugiati, Cir, partner dell’Acnur, che opera attualmente con una ong libica. Al direttore, Cristopher Hein, chiediamo cosa è cambiato in Libia in questo mese di novembre.

Quali prospettive ci sono che l’Acnur riapra l’ufficio tripolitano e torni ad analizzare le pratiche dei rifugiati?

Le autorità di Tripoli il 12 novembre hanno respinto a Ginevra le raccomandazioni dell’Onu di adottare una legislazione sull’asilo e di firmare un’intesa sulla pre¬senza dell’Alto commissariato nel Paese. La Libia ha respinto tra l’altro anche la raccomandazione di abolire la pena di morte e di garantire l’uguaglianza delle don¬ne davanti alla legge e nei fatti. Al momento mi sembra difficile fare previsioni.

Cosa è cambiato giuridicamente per gli eritrei?

Rispetto allo scorso luglio il loro permesso temporaneo è scaduto e devono ripresentarsi alla polizia con un documento del Paese d’origine che dimostri la loro identità. Questo esclude i profughi eritrei la cui situazione ora è tornata preoccupante.

Cosa rischiano?

Il carcere per il reato di clandestinità. Qualcuno per disperazione è fuggito in Egitto, dove ora sappiamo cosa rischiano, o è tornato in Sudan, le cui autorità agiscono a intermittenza: a volte sono tolleranti, altre li rimpatriano condannandoli a morte o ai lavori forzati per diserzione.

Ma dalle trattative in corso con l’Onu non può venire qualche spiraglio?

Al momento tutto pare fermo sul fronte del Palazzo di vetro. Guardo invece con maggiore interesse agli sviluppi dei rapporti con l’Ue. La commissaria europea per l’immigrazione Maelmstrom ha di recente con¬cluso un accordo di circa 50-60 milioni di euro con la Libia. Inoltre è imminente il vertice di Tripoli tra Unione europea e Unione africana dove si parlerà anche di flussi migratori. In questa fase ai libici interessa raggiungere un’intesa con l’Europa che riguardi anche il commercio e il turismo. Ma è chiaro che Bruxelles non può stringere accordi commerciali con un Paese che non garantisce il rispetto dei diritti umani.
Le speranze per i rifugiati possono quindi venire dalle pressioni europee.

Oggi sono cambiate le rotte africane verso la Libia?

Gli arrivi continuano, in particolare dai Paesi del Corno d’Africa, ma in misura minore. C’è chi tenta di spostarsi verso l’Egitto per poi raggiungere l’Europa verso la Turchia. C’è stato uno spostamento di somali verso il Sudafrica, ma quello Stato l’anno scorso ha avuto il maggior numero di rifugiati e probabilmente è saturo.

Paolo Lambruschi
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Per il presidente del Consiglio per i rifugiati le trattative con l’Onu sono a un punto morto, mentre al vertice tra Ue e Unione africana si dovrebbe discutere di migrazioni

martedì 16 novembre 2010

Santa Francesca Cabrini-Avvenire 14 novembre 2010



La maestra che riscattò gli italiani d’America


DI ELIO GUERRIERO

« Gli italiani qui sono trattati come schiavi ». Diceva così madre Cabrini al primo impatto con la realtà americana verso il 1890. Partita da Lodi su impulso del vescovo di Piacenza, don Giovanni Battista Scalabrini e di Leone XIII, due tra gli spiriti più sensibili alla questione sociale e al disagio dei migranti italiani all’estero, aveva aperto una scuola nei quartieri più degradati di New York. Terminate le lezioni, come già faceva nei paesi del lodigiano, non rimaneva nella tranquillità del piccolo appartamento che condivideva con le sue discepole, ma vagava per la città entrando senza paura in ambienti spaventosi per miseria e violenza. Poté allora constatare che le richieste erano enormi e le sue risorse misere. Non si perse d’animo. Con spirito imprenditoriale mise a punto una tecnica che presto diede risultati insperati. Si recava dagli italiani che avevano fatto fortuna e li convinceva a farsi carico delle difficoltà dei più poveri. Le sue argomentazioni: si guadagnavano la riconoscenza dei connazionali, li aiutavano a inserirsi nel crogiolo delle etnie e delle culture presenti in America, il famoso melting pot, tutti insieme guadagnavano di prestigio nella società. Per ottenere questi risultati erano importanti le scuole e una formazione adeguata. Queste proposte erano avanzate con l’entusiasmo di una trascinatrice. Ha testimoniato la moglie del console italiano: dopo le prime fondazioni, la madre «non chiedeva. Erano gli ammiratori della sua opera che si sentivano spinti ad aiutarla ». Poté fondare allora un gran numero di scuole strategicamente sparse in tutti gli Stati Uniti.

Né l’opera della Cabrini si fermò al Nord. Già nel 1891 un viaggio avventuroso la portò in Nicaragua dove poté aprire diverse scuole. Al ritorno passò da New Orleans dove la comunità italiana viveva in una situazione di tensione e disagio. La madre la riorganizzò in 4 o 5 mesi. Seguirono tre viaggi in Argentina e uno in Brasile sempre con lo scopo di aprire delle case dell’istituto e delle scuole per l’integrazione degli emigranti italiani nella società americana.

All’azione in campo scolastico, seguì l’intervento in ambito sanitario. L’ospedale Columbus di New York, da poco fondato, correva il rischio di chiudere per fallimento. Madre Cabrini lo rilevò e lo dotò di attrezzature scientifiche all’avanguardia. In pochi anni il Columbus era diventato uno dei più importanti istituti medici della metropoli. L’ultimo campo di azione della madre furono le carceri dove gli italiani, di umili origini e con scarse conoscenze della lingua, erano impossibilitati a difendersi. Le suore di madre Cabrini riuscirono a riaprire alcuni processi ingiusti e a ripristinare i rapporti dei detenuti con le famiglie.

Oggi la stazione Centrale di Milano viene dedicata a santa Francesca Cabrini, patrona degli emigranti. Un gesto simbolico che acquisterà pienezza di significato se accompagnato dalla strategia dell’accoglienza basata sui cardini individuati dal genio della santa: scuola dell’integrazione, ospedali d’avanguardia, carceri a dimensione umana. La carità immagina ed edifica una città armoniosa in cui possano convivere in pace uomini di razze e culture diverse.

lunedì 20 settembre 2010

Una democrazia fondata sui sondaggi

Domenica 19 Settembre 2010, Il Gazzettino
Una democrazia fondata sui sondaggi
di Romano Prodi

L’Europa è un’ “Unione di minoranze”. Questa definizione così bella e sintetica mi fu rivolta da un parlamentare appartenente a una piccola minoranza etnica di uno dei nuovi paesi che stava entrando nell’Unione Europea.
E con commovente semplicità il parlamentare continuò il suo discorso spiegando che suo nonno era stato perseguitato perché appartenente a una minoranza etnica e suo padre era stato esiliato per lo stesso motivo. Ed egli voleva perciò che il suo paese entrasse nell’Unione Europea perché essa è un’Unione di minoranze.
In tutti i miei discorsi successivi ho fatta mia questa definizione perché essa ha un duplice significato. Il primo è un significato politico e che cioè nessun paese, per quanto grande esso sia e per quanto forte possa essere la sua economia, potrà dominare sugli altri ed essere il padrone del continente. Ed è questa garanzia che ha reso possibile lo sviluppo, la pace e la solidarietà del mezzo secolo di storia che ci sta alle spalle. Il secondo significato è ancora più forte, e che cioè tutti i cittadini europei sono uguali e non possono essere discriminati per la loro appartenenza a una razza o a una religione.
Il ruolo che l’Europa ha nel mondo è proprio quello di assicurare che il paese potente non opprimerà mai quello debole e una comunità potente non opprimerà quella debole. Riguardo al primo aspetto i nostri governi non sembrano più volere prendere in considerazione la necessità di cooperare fra di loro riconoscendo alle istituzioni comunitarie il ruolo di proposta per le evoluzioni future del progetto europeo e il ruolo di arbitro nelle controversie presenti. Da queste evoluzioni negative sono nate le difficoltà che hanno trasformato il modesto problema greco in un pericolo per tutta l’Europa.
Le decisioni del presidente francese nei confronti dei rom hanno messo in crisi il secondo pilastro della nostra convivenza. Con esse infatti si colpiscono non le singole persone in quanto colpevoli di reato ma un’intera comunità in quanto ritenuta depositaria di valori inferiori. Nessuno si nasconde i problemi e le tensioni che i campi nomadi provocano, ma tutti debbono essere altrettanto consapevoli che la soluzione non può essere quella di cacciare via indiscriminatamente tutti i nomadi calpestando i loro diritti e gettando i loro problemi sulle spalle di paesi ancora più impreparati a risolverli e dai quali perciò saranno ancora una volta costretti a fuggire e a ritornare ancora più poveri e risentiti. La Commissione Europea aveva, all’inizio del decennio, proposto un grande progetto di intervento per affrontare in modo positivo e cooperativo questo problema che coinvolge milioni di persone e tutti i paesi dell’Unione. Il presidente francese e, al suo seguito, il governo italiano pensano invece che sia più giusto seguire i sondaggi di opinione che non garantire a tutti il sacrosanto diritto di libera circolazione, riconoscendo naturalmente alle autorità non solo il diritto ma il dovere di reprimere i reati e di custodire la sicurezza dei propri cittadini. Tutti sono consapevoli che, con queste decisioni, i problemi saranno in futuro più gravi e le soluzioni più difficili, ma è certo politicamente più conveniente ottenere per sé un vantaggio oggi mentre altri dovranno risolvere le tragedie di domani. E’ ormai l’eterno e drammatico problema della nostra democrazia che, vivendo sui sondaggi, diventa per definizione incapace di affrontare i problemi futuri. Una deriva che lascia ai successori problemi sempre più gravi ed un’eredità sempre più difficile da gestire. Una democrazia in cui i responsabili del potere non sono più in grado di esercitare il loro dovere di leadership perchè sono convinti che fare le cose giuste, anche se sgradite, sia solo un modo per perdere il proprio potere personale. Un modo di governare che obbliga di conseguenza ad aumentare il contenuto di demagogia e di manipolazione, entrambi necessari per indebolire lo spirito critico e la reazione morale che dovrebbe naturalmente conseguire dall’osservazione di queste decisioni. Si può rispondere che queste sono le regole della democrazia moderna. Ma se queste sono le regole allora bisogna prendere sul serio l’osservazione di un alto esponente politico cinese alla fine di una conversazione sui processi decisionali del mondo contemporaneo: “Sono molto preoccupato per il futuro della vostra democrazia”.
Romano Prodi

L'equivoco sui Rom

Duri o buonisti l'equivoco sui rom
di Giuliano Amato Il sole 24 Ore 19 settembre 2010

Serve solo a suscitare emozioni contrapposte dividersi in duri e buonisti sulla questione dei Rom. La avvertiamo insieme come un rischio per la nostra sicurezza e come una macchia per la nostra coscienza ed è solo dipanando questa matassa e separandone i fili che riusciremo a venirne a capo. In gioco infatti c'è di sicuro la nostra difesa dalla piccola e non sempre piccola criminalità che spesso alligna nei campi nomadi, ma c'è anche la libertà di movimento dei cittadini comunitari (quando si tratta di Rom di provenienza comunitaria) e ci sono i diritti di una minoranza, che dovremmo riconoscere e che ancora non abbiamo riconosciuto.

Procediamo con ordine. Ai Rom e ai loro modi di vita eravamo abituati da decenni, ma c'è stata un'impennata delle loro trasmigrazioni verso l'Italia, la Francia e la Spagna con l'ingresso nell'Unione dei paesi dell'Est europeo nei quali le loro condizioni di vita erano divenute sempre più grame. Possiamo restituirli a quei paesi per liberarci dei loro accampamenti degradati e dei pericoli che vi scorgiamo? La materia è regolata dalla direttiva europea 38 del 2004, che è appunto quella sulla libertà di movimento dei cittadini comunitari.

È una direttiva tutta scritta in chiave di garanzia e anche se contiene disposizioni per l'espulsione, con divieto di rientro, di coloro che rappresentino una «minaccia reale, attuale e sufficientemente grave da pregiudicare un interesse fondamentale della società», è molto attenta nel delimitare il caso.

Precisa che l'esistenza di condanne penali non giustifica da sola la misura, che non la giustificano neppure «ragioni di prevenzione generale» e che, in particolare, non la si può adottare per motivi economici, e cioè per mancanza di mezzi di sussistenza. Se un cittadino comunitario ne risulta sprovvisto dopo tre mesi dal suo ingresso in un altro paese, può essere allontanato, ma non gli si può vietare il rientro.

L'ispirazione della normativa è trasparente. La si può accusare di non aver previsto quei massicci spostamenti di poveri diavoli, spesso frammisti a male intenzionati, che in concreto ci siamo trovati addosso.

Sarebbe anche ragionevole emendarla nel senso che lo stesso allontanamento per motivi economici sia accompagnato dal divieto di rientro. Ma nessuno - spero - oserebbe toccare il fondamentalissimo principio che una cosa è la mancanza di mezzi, una cosa diversa è la pericolosità sociale e che, in ogni caso, qualunque provvedimento deve scaturire da una motivazione che riguarda singole persone, non gruppi sociali.
Immaginiamo comunque di avere tutti i mezzi legali per liberarci di chi è pericoloso e anche per allontanare con più efficacia chi non ha mezzi di sussistenza. Avremmo così risolto la questione dei Rom? I Rom non sono una congerie di diseredati che si ritrovano nei campi uniti solo dalle loro precarie condizioni di vita. Sono una minoranza con tradizioni culturali e linguistiche che, per cominciare, include italiani e non italiani, comunitari e non comunitari, cristiani e musulmani, cattolici e ortodossi. Hanno vissuto per secoli allevando cavalli ed eccellendo in attività artigiane e di manutenzione, che li hanno resi in passato fiorenti. Poi si sono trovati in un mondo che non aveva più bisogno di loro, le loro comunità hanno vissuto fra difficoltà crescenti e da un lato si è estesa nelle loro file la piccola criminalità come fonte di sussistenza, dall'altro molti di loro hanno cominciato a divenire stanziali e a integrarsi nei modi di vita che noi consideriamo normali.

Decisivo è diventato a questo punto l'atteggiamento verso di loro delle nostre società, cioè di tutti noi. I diversi hanno sempre destato diffidenza, a volte vere e proprie persecuzioni. E non ne sono stati indenni i Rom, 500mila dei quali furono vittime delle camere a gas naziste insieme agli ebrei. Ma questo, in molti paesi, non è bastato a farli vedere come vittime, a cogliere i loro nuovi bisogni, ad accettarli dunque via via che loro stessi venivano accettando forme nuove d'integrazione, che pure salvaguardassero la loro identità. Eppure, dove la si è praticata, l'integrazione funziona.

È accaduto così che nelle sedi europee abbiamo approvato raccomandazioni contro il razzismo, risoluzioni per la scolarità dei bambini Rom e stanziamenti sul bilancio comunitario per progetti d'integrazione. Poi alcuni paesi (come documenta Leonardo Martinelli nel suo articolo di venerdì su questo giornale) sono stati coerenti, mentre noi in Italia, abbiamo fatto nel 1999 una legge per la tutela delle minoranze, ma l'abbiamo limitata alle minoranze territoriali e ne abbiamo per ciò stesso escluso i rom, lasciandoli nel loro limbo.

Quando ero ministro dell'Interno conobbi un ragazzo Rom di diciotto anni. La sua famiglia era fuggita dalla Bosnia durante la guerra dei primi anni 90 e proprio a causa della guerra erano bruciati gli atti dello stato civile da cui poteva risultare la sua cittadinanza. Da noi era andato a scuola e ora, dopo diciotto anni, o gli si dava un permesso di soggiorno, o lo si doveva espellere, mandandolo non si sa dove. Ma il permesso di soggiorno non poteva essere fatto, perché non aveva una cittadinanza, legalmente non esisteva.

Lo salvai dall'espulsione, ma mi convinsi una volta di più che una legge sulla minoranza Rom era quello che mancava. Cominciai a lavorarci ma, come già ho raccontato in un articolo precedente, venni invitato dalla mia maggioranza ad aspettare il momento più opportuno e poi, all'inizio ormai del 2008, cadde il governo.

Ecco, siamo a questo punto, salvo gli episodi di positiva integrazione in non molti comuni italiani. Chissà quanti sono i ragazzi come quello di cui ho parlato che, a differenza di lui, sono finiti nei gorghi delle procedure di espulsione, anche se non eseguite perché di fatto non eseguibili. Si staranno nascondendo in qualche campo, vivranno di espedienti e di sicuro si sentiranno più solidali con chi fa spedizioni notturne per asportare il rame dalle linee ferroviarie che non con tutti noi, "gage" ostili che cerchiamo solo di evitarli. Le visite che ho fatto nei campi Rom mi hanno dato più di una prova dell'errore che facciamo usando solo la durezza e usandola in modo indifferenziato. L'unico risultato è che si rinserrano le fila e viene frustrato così il desiderio (formulatomi esplicitamente) di non vivere più fianco a fianco con i ladri e i delinquenti che invece spadroneggiano nel necessitato silenzio degli altri. Immagino che sia quello che sta accadendo in questi giorni in Francia.

Torno così al punto di partenza. Non facciamone una partita fra duri e buonisti, perché comunque finisca noi la perderemmo. La partita si vince se la si gioca su entrambi i fronti e, se lo si fa, noi stessi possiamo uscirne più soddisfatti. Vogliamo la sicurezza, ma non ci piace sentirci la coscienza sporca. O no?
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lunedì 23 agosto 2010

Da Ground Zero ai rom, in gioco i diritti dell'uomo

22 agosto 2010
Da Ground Zero ai rom, in gioco i diritti dell'uomo
di Giuliano Amato


La polemica che ha investito Barack Obama, per la sua iniziale presa di posizione a favore della costruzione di una moschea a Ground Zero, e poi l'espulsione dei rom dalla Francia sono solo la spia di un fondamentalissimo problema, che quasi quotidianamente mette in gioco la fedeltà a se stesse delle nostre democrazie. Obama ha fatto un'affermazione che in sé e per sé dovremmo ritenere ovvia: «Noi siamo l'America, questi sono i nostri valori e ad essi ci dobbiamo attenere».

Eppure, nel contesto di sentimenti popolari che dopo l'11 settembre identificano con il terrorismo il mondo musulmano, l'affermazione del presidente americano è stata contrastata nel suo stesso partito, timoroso di perdere ulteriori consensi.

I rom sono una minoranza con storia, tradizioni, aspettative. Le condizioni in cui vivono da decenni in società che non hanno più bisogno dei loro cavalli e delle loro qualità artigiane, hanno accentuato la loro segregazione, il degrado dei loro insediamenti, la microcriminalità come fonte di sussistenza. Le maggioranze vogliono solo liberarsene e i governi, nonostante le convenzioni e i trattati che per ragioni di civiltà prevedono tutt'altro, prima o poi le assecondano. E proprio qui è il punto. La democrazia è fondata su principi di civiltà che sono la sua ragion d'essere e la distinguono da altri regimi. Ciò nondimeno in essa le ragioni del consenso e le ragioni della (sua) civiltà finiscono molto spesso per divergere.

Volete qualche altro esempio tratto dalla nostra esperienza in Italia? Intanto gli stessi rom, e lo sappiamo bene. Ricordo solo che la maggioranza di centro-sinistra fu molto tiepida con me quando volevo un disegno di legge per riconoscere i loro diritti e togliere tanti di loro dall'assurdo limbo di una vera e propria inesistenza giuridica (che per ciò stesso non permette di trovare lavoro). Poi ci sono le carceri, che nella patria di Beccaria dovrebbero privare il detenuto della sola libertà personale, mai degli altri diritti che discendono dalla sua dignità di essere umano. Ma in molte delle nostre carceri, non fosse altro che per il loro sovraffollamento, quei diritti sono violati ogni ora del giorno e della notte. Eppure il tema non è mai fra quelli per cui si muovono le maggioranze, che guardano alla questione con tutt'altre finalità.

I somali che tentano di raggiungere le nostre coste sono persone che avrebbero in Italia diritto d'asilo. Noi li fermiamo prima che arrivino, chiediamo alla Libia di occuparsene e non facciamo l'unica cosa che la nostra civiltà ci chiederebbe di fare: andare noi a verificare in Libia l'autenticità della loro posizione (o farla verificare lì dall'organizzazione delle migrazioni) e portarli in Italia. Le ragioni del consenso non consentono a nessuno dei grandi partiti di sostenere una tale soluzione.

Così come le ragioni del consenso impediscono di prendere atto che gli stessi immigrati illegali, i paria della nostra comunità nazionale, sono titolari di diritti e con loro lo sono i loro figli, giacché l'istruzione, la salute, l'assistenza legale, la sicurezza sul lavoro sono diritti non del cittadino, ma della "persona". Gli immigrati illegali sono almeno persone? Nessuno osa negarlo, e tuttavia quanti di noi sono pronti a trarne le conseguenze?

C'è chi è pronto a farlo, ma sono sempre i meno, mai i più. Non a caso i temi che ho ricordato sono oggetto di campagne di minoranza, come quelle del movimento radicale, da anni campanello d'allarme delle nostre coscienze. E non a caso nell'assetto istituzionale delle democrazie si distingue fra istituzioni maggioritarie elettive, nelle quali prevalgono le ragioni del consenso, e istituzioni non maggioritarie di garanzia, in primo luogo le corti, nelle quali dovrebbero prevalere le ragioni della civiltà codificate proprio in quei diritti a cui le maggioranze sono meno sensibili.

È già molto per le ragioni della civiltà se vi sono minoranze libere di sostenerle e giudici abilitati a farle valere, quando esse si incarnano in obblighi e diritti. Ma una democrazia finisce prima o poi per ammalarsi se le maggioranze non si aprono mai alle minoranze e disattendono le decisioni dei giudici, che ne contestano le scelte in nome di un principio superiore.

Insomma, i famosi checks and balances funzionano a dovere, e con loro funziona a dovere il sistema democratico, se ci sono interazione e quindi reciproca permeabilità fra le istanze di cui essi sono portatori e quelle di cui si fanno carico le maggioranze. Se c'è invece impermeabilità e quindi divaricazione perdurante, alla lunga tutto il sistema si deteriora, perché le minoranze o si estremizzano o si estinguono e i giudici, che non possono distanziarsi senza limiti dalla sensibilità delle maggioranze, finiscono per acquietarsi.

I leader illuminati delle minoranze lo sanno e sanno perciò trovare mediazioni e compromessi con le maggioranze. E anche la giustizia possiede le formule interpretative che permettono di salvaguardare i diritti individuali meno graditi alle stesse maggioranze, lasciando un qualche spazio ai limiti voluti da queste. Si pensi alla Corte europea dei diritti dell'uomo, che distingue fra diritti non suscettibili di alcun bilanciamento, come il diritto a non subire torture, e diritti, come quello a non vedersi sequestrato un film, davanti ai quali possono in certi casi prevalere i sentimenti religiosi dominanti nella comunità interessata.

Il problema è se flessibili sono anche le maggioranze e pronte esse stesse a interagire. Gli esempi per la verità non mancano e uno recente è la Spagna, dove la Corte costituzionale aveva censurato nel 2007 una legge che comprimeva quasi tutti i diritti degli immigrati illegali (salvo la scuola per i loro bambini) e una nuova disciplina è stata approntata nel 2010 che accoglie in buona parte le sue preoccupazioni.

Si tratta dunque di un circolo virtuoso possibile, che tale rimane però sino a quando nelle maggioranze prevalgono le qualità che trovereste naturali in una democrazia, la misura e il realismo. Ma attenti. Già 45 anni fa Richard Hofstadter ci spiegò la tendenza della politica, negli stessi paesi democratici, a diventare - lui diceva - paranoica e quindi a puntare per affermarsi sulla denuncia dei complotti, sulla demonizzazione dei nemici e sulla diffusione dell'ostilità e della paura ("The Paranoid Style in American Politics", New York 1965). Quando ciò accade, l'assimilazione fra talune minoranze e il nemico è la cosa più facile. E su chi conduce battaglie di civiltà cade prima il silenzio che isola, poi l'ostilità che comprime.

Un metro dunque per misurare la salute delle nostre democrazie lo abbiamo. Se ancora c'è chi si batte per ragioni di civiltà che contrastano con le ragioni del consenso, vuol dire che c'è vita. Ma se intorno c'è e rimane un pervicace silenzio, forse stiamo già entrando in paranoia.



22 agosto 2010

giovedì 19 agosto 2010

«Abbiamo lasciato a spagnoli e israeliani la ricerca avanzata»


Leonardo Vingiani

«Abbiamo lasciato a spagnoli e israeliani la ricerca avanzata»

Il Sole 24 Ore 18 agosto 2010

«L'Italia era al secondo posto in Europa per le sperimentazioni genetiche in campo. Poi, a causa di 10 anni di blocco, siamo precipitati, lasciando tutti gli spazi a spagnoli e israeliani, e ora i nostri ricercatori emigrano. Per esempio, sono italiani i ricercatori impegnati in Cina con le sperimentazioni sui pioppi». Per Leonardo Vingiani, direttore di Assobiotec (l'associazione per lo sviluppo delle biotecnologie, aderente a Federchimica), è da considerare una follia ideologica quella che ha impedito all'Italia di sviluppare gli Ogm.
Chi è contrario agli Ogm sostiene che, introducendoli in Italia, la nostra agricoltura non sarebbe più competitiva poiché perderebbe gli aspetti legati alla tipicità.
Sono assurdità. Le specialità, le tipicità incidono per meno dell'1% sull'economia agricola italiana. Non è con la cipolla di Tropea che si garantisce la sopravvivenza dell'agricoltura ma bisogna badare alle necessità di chi fa commodities.
Ma se produciamo mais identico a quello di Paesi a basso costo di manodopera, possiamo essere competitivi?
Non dobbiamo pensare di coltivare mais per esportarlo in mezzo mondo. Non avrebbe alcun senso. Ma dobbiamo e possiamo essere competitivi per la produzione di mais, e di soia, destinato ad essere trasformato in mangime per i nostri allevamenti. Perché già adesso il 90% dei mangimi per i nostri maiali o le nostre vacche da latte deriva da prodotti Ogm. E allora non ha alcun senso acquistare all'estero mais geneticamente modificato e poi impedire ai nostri coltivatori di essere competitivi. Non a caso la produzione di mais in Italia è calata sensibilmente negli ultimi anni.
Ma non sono proprio gli agricoltori ad essere contrari agli Ogm?
No, non è vero. Sono solo alcuni di loro ad opporsi con motivi pretestuosi. Abbiamo promosso un sondaggio tra gli agricoltori della Lombardia ed il 60% si è dichiarato favorevole agli Ogm, qualora ci fossero leggi chiare. Ed in ogni caso chi si oppone dimostra la totale mancanza di rispetto nei confronti delle libertà individuali.
Non ci sono rischi, con l'intervento genetico, di rinunciare alla tipicità, con il pomodoro di Pachino prodotto magari in Cina?
Ma il pomodoro di Pachino non esisteva in natura. È nato 35 anni or sono in un laboratorio israeliano e poi è stato portato in Italia perché si è riscontrato che ci fossero le migliori condizioni per coltivarlo. E non si tratta di un caso isolato. Tutte le principali varietà vegetali sono state selezionate nei laboratori dai genetisti agrari che hanno individuato le caratteristiche migliori. L'unica differenza è che ora le procedure sono meno lente. Mentre l'Italia avrebbe tutte le qualità e le competenze per proseguire nella tradizione di sperimentazione, in grado di assicurare un miglioramento genetico non casuale ma voluto e mirato.
Il mais transgenico crea timori anche per l'alimentazione umana, a partire dagli amanti della polenta.
Anche in questo caso occorre fare chiarezza. Innanzitutto perché il 95% della produzione di mais è destinato agli allevamenti e non all'alimentazione umana. Quanto ai rischi, va ricordato che le tossine sono decisamente minori nel mais Ogm. In ogni caso per ora il problema non riguarda la produzione per l'uomo.
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lunedì 16 agosto 2010

Accordi per aiutare non per respingere-Avvenire 14.08.2010



Nozza: il flusso migratorio che preme sulla Ue è sempre più forte Ma costruire muri non serve. Accoglienza nel segno della legalità



DA MILANO PAOLO LAMBRUSCHI

Non servono muri e accordi internazionali contro le persone in mare o in terra. Bisogna procedere invece sulla via dell’accoglienza e dell’integrazione, aprendo una seria riflessione sull’illegalità, spesso funzionale allo sfruttamento del lavoro nero. Monsignor Vittorio Nozza, direttore della Caritas Italiana, interviene sui recenti sbarchi.

Come valuta la ripresa degli arrivi dei migranti?

Abbiamo avvertito e segnalato un ritorno in questi ultimi tempi di flussi migratori su coste e rotte che parevano dimenticate. È accaduto in Puglia, ma anche in Sardegna e nello stesso Canale di Sicilia. Numeri ancora contenuti, certo, ma vediamo modalità di trasporto nuove con piccole barche o velieri. I fatti di questi ultimi mesi ci portano a dire che, se si bloccano alcune rotte, comunque gruppi di immigrati e il racket cominciano a studiare nuovi percorsi. Il flusso migratorio che preme sull’Unione europea è troppo forte. Non si arresta in questo modo.

L’Italia sta cercando di stringere accordi con Grecia e Turchia da dove provengono le imbarcazioni che da alcuni mesi approdano sulla costa pugliese. Basterà?

Gli accordi internazionali vanno colti come strumenti opportuni proprio perché consentono di governare e accompagnare il muoversi di masse di persone il più delle volte in situazioni di disperazione o povertà. Ma tutto dipende da cosa sta dentro un trattato tra uno Stato e l’altro: se è un accordo contro le persone, se esso si riduce a un puro costruire muri e respingere, i fatti ci dicono che non risolve completamente il problema poiché c’è il rischio che comunque i migranti tentino percorsi diversi. Se invece in un accordo tra uno Stato e un altro, o meglio tra diversi Stati di partenza e transito e l’Ue, c’è anche una preoccupazione e un’assunzione di responsabilità verso gli immigrati e i profughi allora l’accordo è opportuno e necessario. Ben vengano dunque accordi capaci non di respingere le persone in difficoltà, ma di accogliere, di assumere, di accompagnare quanti in questo migrare vanno alla ricerca di una speranza futura con onestà e buona volontà.

Avete ribadito che gli ingressi non avvengono solo via mare, anzi...

Non è una novità, ma è opportuno tenere presente che in Europa i migranti arrivati con gli sbarchi sono sempre stati molto meno di quelli che varcano le frontiere via terra. Accadeva prima e accade anche ora. Solo in Italia sbarcavano in 30 mila via mare contro 100 mila via terra. Ma l’illegalità cresce non solo per i nuovi arrivi, ma internamente grazie alla crisi. È un problema che avvertiamo ai nostri centri di ascolto parrocchiali e che ci preoccupa.

Vale a dire?

Purtroppo durante questa recessione molti immigrati regolari, con un lavoro e già inseriti da anni, stanno perdendo il proprio posto, passando da una situazione di regolarità a una di irregolarità perché questo vuole la legge italiana, che lega il permesso di soggiorno solo all’occupazione. Questo avviene indipendentemente dalla lunghezza della permanenza e dal livello di integrazione. Ciò finisce con l’incrementare di nuovo il numero degli irregolari, mettendo intere famiglie in condizioni precarie. A noi pare giusto chiedere agli immigrati, accanto alla doverosa accoglienza che va prestata, il rispetto della legalità. Ma poi non sfugge a nessuno che la massa di irregolari viene sfruttata con il lavoro nero in diversi comparti della nostra economia. Siamo in estate, pensiamo a cosa sta accadendo nelle nostre campagne. O alle badanti e alle colf. L’integrazione si costruisce anche attraverso la legalità, quindi con un lavoro alla luce del sole, capace di dare dignità, autonomia e sussistenza.

A proposito di integrazione, al momento del varo da parte del governo del piano nazionale che prevede il permesso a punti lei sospese il giudizio. Dopo tre mesi, cosa ne pensa?

Non sono intervenuti elementi né ho dati per una valutazione di merito. Dico solo che è giusto chiedere agli immigrati la conoscenza della nostra lingua, della cultura e il rispetto delle leggi. Ma occorre fornir loro anche gli strumenti di apprendimento. Il permesso a punti non deve trasformarsi a mio avviso in un percorso a punti verso l’integrazione e credo che nessuno voglia provvedimenti punitivi. In generale, per evitare controproducenti strumentalizzazioni politiche, credo che la nostra società debba chiedersi serenamente che uso intende fare dell’immigrazione. All’Italia e all’Europa serve un progetto serio.

(ha collaborato Nicola Ferrante)

Il direttore della Caritas: giusto accompagnare i migranti che vanno alla ricerca di una speranza futura con onestà e buona volontà Attenti al racket. Se si bloccano alcune rotte, i criminali studiano altri percorsi

Una variante alla “Valsugana” per risolvere il problema del traffico


Uno dei grandi problemi del Veneto, che ha sviluppato negli ultimi 40 anni un sistema economico fra i più vivaci del mondo, è la carenza di infrastrutture stradali. Continuiamo a far correre sulle strade fatte dai “Romani” duemila anni fa (Medoacus e Postumia) auto, Tir, furgoni, i mezzi pubblici sono assolutamente carenti per il trasporto merci, continuiamo a fare capannoni, case e condomini. San Giorgio non fa eccezioni e rinviare la soluzione del traffico vorrebbe dire tagliarsi fuori dal futuro sviluppo dell’alta Padovana.
Con 35.000 veicoli al giorno, che aumentano alla media del 5% l’anno, con un semaforo che blocca il traffico con code interminabili, il centro di San Giorgio in Bosco, è sempre meno fruibile dai residenti. Lo smog, soprattutto il PM10, ha raggiunto picchi allarmanti. Né valgono a risolvere la situazione i due ampi marciapiedi ai lati della Valsugana che offrono maggior sicurezza ai pedoni e la viabilità parallela ad est, via del Donatore, che sarà pronta nel 2008 e quella ad ovest, con lo spostamento della Bretella, che non è al momento finanziata. E neppure la rotatoria, che sostituirà a breve il semaforo, risolverà il traffico delle ore di punta, anzi aumenterà il pericolo dell’attraversamento della strada da parte di pedoni e biciclette. E’ l’anima del paese che rischia di scomparire sommersa dall’inquinamento acustico e ambientale.
Dopo il completamento della tangenziale di Limena, San Giorgio rappresenta il problema viario per eccellenza nella direttrice Padova-Bassano. Ben si comprende, dunque il dibattito in corso da anni, sulla realizzazione di snodi viari alternativi.

Già il 27 ottobre 1999 si è cominciato a parlare di viabilità nell’Alta Padovana e della Pedemontana in un incontro nel Comune di Cittadella con il Cons.Reg. Vittoriano Mazzon e con l’Ass. Fontana e nel convegno organizzato dalla Provincia di Padova il mese successivo emergeva la fragilità di un’economia cresciuta oltre ogni previsione, ma “stoppata” da un sistema viario inadeguato.
Dal confronto emerso il 28 gennaio 2000, alla Torre di Malta, fra i politici (De Poli e Bazzoni), i rappresentanti delle forze economiche presenti (Upa e Unindustria) e i tecnici presenti, emergevano i problemi che ostacolavano la mobilità nell’Alta Padovana, in particolare per San Giorgio in Bosco. E lo stesso De Poli interrogava la Regione il 6 aprile 2000 “…perché intervenga presso l’Anas affinché inserisca nei suoi interventi prioritari sia la progettazione che il necessario stanziamento per la realizzazione del passante di San Giorgio in Bosco…”
Nell’incontro-dibattito dell’11 aprile 2000 a San Giorgio in Bosco, coordinato dal sottoscritto, tutti i relatori (Antonio Meneghetti, Pres.Upa, Roberto Ongaro, già Ass.Prov.Padova, Antonio Perozzo, Pres.Cna, Antonio Bertuzzo, Pres. Ascom, Franco Frigo, Antonio De Poli, Giovanni Gallo, Vittoriano Mazzon, questi ultimi candidati al Consiglio Regionale) si esprimevano per un impegno a risolvere con una variante alla Statale 47 a San Giorgio in Bosco.
Il 9 gennaio 2001, la Giunta comunale di San Giorgio in Bosco prendeva atto del Piano Provinciale della viabilità, enucleando come priorità la realizzazione di una tangenziale a San Giorgio in Bosco.
L’11 novembre 2002 la Provincia di Padova affidava quindi l’incarico per la redazione di uno studio di fattibilità per una variante alla ex S.S. n. 47 “Valsugana”, nel tratto da S.Giorgio in Bosco a Facca di Cittadella, su richiesta dell’allora Cons.Prov. Mario Gerolimetto che era riuscito a farne approvare il relativo finanziamento nel bilancio preventivo.
Il 29 novembre 2004 il Consiglio Comunale, all’unanimità, approvava un ordine del giorno in merito alla variante San Giorgio in Bosco-Cittadella, richiedendo alla Provincia l’impegno di dare immediato avvio all’iter procedurale per la redazione del progetto preliminare, definitivo ed esecutivo, spostando l’innesto in prossimità della zona industriale di Paviola. Il Consigliere Provinciale Paolo Simioni, intervenendo in questo Consiglio, concordava sul testo deliberato.
Il 28 settembre 2005, in una strapiena sala teatro di San Giorgio in Bosco, i comuni di Fontaniva, San Giorgio in Bosco e Cittadella, alla presenza dell’Ass.Prov. Riolfatto, presentavano lo studio di fattibilità della variante che interessava i tre Comuni con l’illustrazione dell’Ing. Furlan di Idroesse.
Il 17 novembre 2005, presso la sala consigliare di San Giorgio in Bosco, l’Ass. Riolfatto della Provincia illustrava a tutti i sindaci dell’Alta Padovana la bozza di revisione del Piano Provinciale della viabilità, raccogliendone i suggerimenti e le osservazioni.
Mentre le periodiche riunioni del Coordinamento delle categorie economiche del Cittadellese, all’Hotel Filanda, con i politici hanno sempre sostenuto la necessità di decongestionare il traffico della Valsugana, raccordandolo con la Pedemontana e realizzando le tangenziali sud di Cittadella e di San Giorgio in Bosco-Cittadella, la Federazione Provinciale Coltivatori Diretti di Padova presentava il 13 febbraio 2006 un elenco di firme contrarie alla tangenziale di San Giorgio in Bosco, ritenendo che l’opera avrebbe avuto un impatto devastante sul territorio.
Il 14 febbraio 2006 la Giunta prendeva atto del Piano Provinciale della viabilità della Provincia, ribadendo la assoluta priorità della realizzazione della variante San Giorgio in Bosco-Cittadella.
Nel Consiglio Comunale del 28 aprile 2006, in una sala consigliare dove non tutto il foltissimo pubblico aveva potuto accedere, il Sindaco comunicava, l’accordo politico tra i Comuni di Cittadella, Fontaniva, Galliera Veneta, Tombolo, Campo San Martino e San Giorgio in Bosco in ordine alle soluzioni dei tracciati intercomunali PATI “Alta Padovana”:
“L’ordine del giorno di questa sera vuole solo rendere pubblica la lettera, firmata dai sei sindaci del PATI “Alta Padovana” (noi siamo con quello di Piazzola, ma siamo uniti al Cittadellese per quanto riguarda la viabilità) con la quale viene richiesto alla Provincia di riprendere la progettazione della viabilità che la stessa aveva sospeso con lettera del 07.02.06 e che leggo testualmente: (omissis).
Si tratta di un accordo di portata “storica” perché mai, a memoria d’uomo, sei sindaci si erano trovati d’accordo su qualcosa, fosse anche solo per ordinare un aperitivo al bar.
Tutti hanno capito che non è più possibile progettare qualcosa da soli. Per esempio, per Cittadella abbiamo firmato anche noi per la palestra di Santa Maria, per Fontaniva abbiamo abbiamo firmato per il Museo, per la zona artigianale di San Giorgio in Bosco la Provincia ha chiamato tutti i Comuni contermini, per il PATI abbiamo tutti dovuti associarci, per la ferrovia lo stesso e così via.
Non si tratta più della “variante San Giorgio in Bosco-Cittadella”, ma di un “piano di assetto territoriale intercomunale”, cioè di un sistema di viabilità che pone riparo agli errori dello sviluppo disordinato del Cittadellese. Se riusciremo a risolvere il problema della viabilità della zona industriale di San Giorgio in Brenta, quello dell’enorme zona industriale fra Cittadella e Tombolo, delle code di San Giorgio in Bosco, sarà merito di questo accordo. E dobbiamo capire che non si risolve il problema di un comune senza interagire su quelli confinanti, anche con sacrifici che siano accettabili per il bene comune. In risposta a questo documento la Provincia con lettera del 21.04.06 ha ripreso l’attività progettuale. L’iter per la soluzione progettuale dei tracciati per la soluzione della viabilità dell’alta padovana è quindi avviato perché l’opera è strategica e di fondamentale importanza e tagliarsi fuori da essa vorrebbe dire tagliarsi fuori dal futuro sviluppo del Cittadellese. Altre soluzioni alla variante San Giorgio in Bosco-Cittadella significherebbe solo trasferire ad altri Comuni (che non li vogliono) i nostri problemi.
Per far fronte al grande pubblico, il Consiglio Comunale del 22 maggio 2006 veniva convocato nella sala teatro. Dopo l’illustrazione delle caratteristiche dello studio sul tracciato sulla nuova variante da parte del Geom. Furlan, intervenivano vari Consiglieri Comunali, rappresentanti di associazioni produttive (Cav. Meneghetti-Coord.Cat. del Cittadellese, Toniolo Luciano-Coldiretti, Conte-Cia, Campagnolo Natalino-Cna), l’Ass. di Fontaniva Spessato, il Cons.Prov. Simioni e il Cons.Reg. Franco Frigo. La mozione approvata dalla maggioranza (con l’astensione delle opposizioni) nel riaffermare l’urgenza di una soluzione alla viabilità per San Giorgio in Bosco, sollecitava la Provincia a valutare, oltre allo studio di fattibilità illustrato, anche altre soluzioni.
Nel Consiglio Comunale del 7 maggio 2007 infine, con i voti favorevoli della maggioranza e contrari delle opposizioni, veniva approvato lo studio di fattibilità della Variante di San Giorgio in Bosco e Facca di Cittadella al percorso della S.P. 47 Valsugana. Nel dibattito veniva illustrata la risposta negativa a una viabilità alternativa sulla “Strada Contarina” che passa per Piazzola sul Brenta, fornita da Net Engineering, incaricata dalla Provincia: “…da ciò ne risulta che l’alternativa più conveniente per risolvere le criticità presenti sulla S.P. 47 è la creazione di una variante alla S.P. 47 ad essa parallela, piuttosto che puntare sul potenziamento di itinerari alternativi che, pur con caratteristiche migliorate, non assorbirebbero il traffico in eccesso sulla S.P. 47, che ne determina la congestione”. Nella delibera veniva votato un emendamento che chiedeva alla Provincia di tener conto negli indennizzi ai proprietari dei disagi (lotti interclusi, deprezzamento del valore delle aziende agricole) e opere di mitigazione dell’impatto della nuova infrastruttura (pista ciclabile, miglioramento della viabilità esistente, percorsi pedonali). Durante il Consiglio interveniva anche il Cons. Prov. Simioni che, nell’approvare in Consiglio Provinciale il Piano Provinciale della Mobilità (comprendente anche la variante di San Giorgio in Bosco), aveva ottenuto un emendamento per la rotatoria al semaforo.
Il Consiglio Regionale alla fine dello scorso anno ha approvato all’unanimità, compreso il voto favorevole dei Consiglieri Regionali di zona Conte e Frigo, il nuovo piano triennale della viabilità inserendo la variante alla SR 47/ San Giorgio in Bosco-Cittadella.
Le perplessità di una parte della popolazione riguardo al rispetto dell’ambiente sono legittime, ma sta a tutti noi trovare le soluzioni più opportune. Il problema è di metodo. La via che bisogna seguire è quella della concertazione, in modo che l’opera stessa sia vissuta come un’opportunità economica e non come un’imposizione dall’alto.

San Giorgio in Bosco, 22 agosto 2007

Il sindaco
Leopoldo Marcolongo

lunedì 9 agosto 2010

Tasse sui redditi alti per non ridurre la spesa-Innocenzo Cipolletta

Innocenzo Cipolletta Il Sole 24 Ore 06 agosto 2010

Come si può ridurre il disavanzo pubblico del paese senza troppo deprimere la capacità di crescita? La risposta che viene correntemente data è: basta ridurre gli sprechi e combattere l'evasione fiscale. In questo modo si riesce a ridurre il disavanzo pubblico senza incidere sulla crescita del paese. Bella soluzione: ma funziona? L'esperienza dice di no.
Quando si parla di sprechi nella spesa pubblica si citano sempre gli stessi esempi: la pletora dei CdA delle società degli enti pubblici, la presenza di sedi all'estero, le auto blu, l'assenteismo, i falsi invalidi e poco altro.
Sono esempi che attirano l'attenzione ma nel complesso incidono poco sulla spesa pubblica. Certo, vanno eliminati, ma non è questa la via per fare risparmi consistenti. La strada è quella di tagliare alcuni servizi pubblici e anche qui si sostiene che ci siano molti sprechi. Ma, quelli che alcuni considerano come sprechi, spesso sono invece servizi utili per altri. Lo spreco è sempre quello che non serve a noi. Treni e autobus che viaggiano semivuoti; posti letto negli ospedali che non sono pienamente utilizzati; musei poco visitati; enti di ricerca e culturali; scuole diffuse sul territorio; eccetera.
Si possono riorganizzare questi servizi, ma alcuni sprechi non possono essere eliminati, pena la perdita del servizio stesso. Ad esempio, non si può pretendere che tutti partano alla stessa ora con lo stesso mezzo di trasporto per razionalizzare il servizio, ovvero che tutti vadano allo stesso ospedale, come in una catena di montaggio. La qualità di un servizio sta anche nella sua disponibilità quando serve. Più che tagli di sprechi, occorre avere il coraggio di dire che si stanno riducendo i servizi ai cittadini, ciò che non può non incidere sulla loro vita e sulla loro capacità di spesa. Con il risultato che questi tagli hanno effetti depressivi sull'economia, ciò che invece si sarebbe voluto evitare.
Lo stesso vale per la lotta all'evasione. Spesso la lotta all'evasione è affidata all'eliminazione di alcune deduzioni fiscali, considerate fonte di elusione, o all'inasprimento di alcuni parametri ritenuti non adeguati. Saranno anche giuste simili misure, ma alla fine sono nient'altro che un inasprimento fiscale su chi già paga adeguatamente le imposte. Mentre i troppi condoni e scudi fiscali finora fatti nel nostro paese non hanno portato alcuna riduzione dell'evasione fiscale e hanno invece premiato abbondantemente chi evadeva le tasse. E con ciò l'evasione fiscale è continuata.
In effetti, l'errore principale sta proprio nel considerare la lotta all'evasione e agli sprechi come misure per fare cassa nei momenti di bisogno. Questa impostazione trasforma un'azione ordinaria che dovrebbe essere esercitata costantemente in una manovra straordinaria dettata dalla congiuntura economica. È come dire che, se non ci fosse la necessità di ridurre il disavanzo pubblico, allora non varrebbe la pena di ridurre gli sprechi e di combattere l'evasione fiscale. E ciò è sbagliato e immorale. La lotta all'evasione fiscale e agli sprechi deve essere un obbligo permanente del governo e dell'amministrazione pubblica, che non deve variare a seconda delle esigenze della finanza pubblica. Sarebbe un vero scandalo se fosse vero il contrario.
Ma allora, come contenere il disavanzo pubblico in una fase recessiva come l'attuale? La via è quella di usare più la leva fiscale che quella della riduzione della spesa pubblica. Un aumento delle tasse sui redditi medio-alti delle persone ha meno effetti depressivi di una riduzione della spesa pubblica che colpisce servizi a danno dei meno abbienti. Inoltre, poiché veniamo da un periodo di forte accentuazione delle disparità di reddito, una simile misura avrebbe anche effetti perequativi e di giustizia sociale. Quindi sarebbe anche meglio accettata dalla popolazione.
Purtroppo nel nostro paese ancora si insegue il mito della riduzione, a tutti i costi, della spesa pubblica, come se fosse la soluzione di tutti i mali, senza rendersi conto che la ricchezza di un paese dipende anche dalla qualità e dalla quantità di servizi che vengono offerti alla popolazione. E si inseguono gli elettori attraverso riduzioni di imposte, come l'eliminazione dell'Ici sulla prima casa che ha abbassato la pressione fiscale sui più abbienti e ha distrutto ogni possibilità di varare una qualche forma di federalismo fiscale.
Con una politica di riduzione del disavanzo pubblico tutto centrato sulla spesa pubblica, si aggraveranno le spinte recessive nel paese. Almeno di questo devono essere consapevoli quanti continuano a pensare che basta ridurre gli sprechi per sanare le finanze pubbliche in una fase di crescita lenta dell'economia.

mercoledì 7 luglio 2010

Giuseppe Dossetti "Sentinella, quanto resta della notte?"


Giuseppe Dossetti

“Sentinella, quanto resta della notte?”
(Isaia 21, 11)

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Commemorando Giuseppe Lazzati nell’anniversario della morte, a Milano, il 18maggio 1994, Dossetti rivolge la propria riflessione – religiosa ma anche politica, riannodando fili mai del tutto recisi – su una contemporaneità percorsa, come scrisse all’allora Sindaco di Bologna Vitali, da propositi di “una modificazione frettolosa e inconsulta del patto fondamentale del nostro popolo, nei suoi presupposti supremi in nessun modo modificabili”. Lo scenario fortemente evocativo della “notte” del profeta Isaia diviene immagine di una diffusa indifferenza morale, in cui la stessa forma democratica è a rischio, trascinata dalla “forte emotività imperniata su una figura di grande seduttore”, può assumere incontrollabili derive di carattere irrazionale e plebiscitario.
Un richiamo alla “vigilanza” che sembra assumere a dieci anni di distanza, a fronte della profonda revisione costituzionale operata negli ultimi mesi dal Parlamento, un nuova, sorprendente e al tempo stesso allarmante, pienezza.

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1. La sentinella interpellata.

Lazzati è sempre stato – ma in particolare negli ultimi anni della sua vita un vigilante, una scolta, una sentinella: che anche nel buio della notte, quando sulla sua anima appassionata di grande amore per la comunità credente poteva calare l’angoscia, ne scrutava con speranza indefettibile la navigazione nel mare buio e livido della società italiana (1).
Perciò mi pare che per lui e per la sua devota e ansiosa scrutazione possano valere le parole di un breve, e un po’ enigmatico, oracolo del libro di Isaia: inserito tra le profezie sulle Nazioni pagane (in questo caso, come formalmente precisa la versione gre ca dei LXX, sull’Idumea oppressa dagli Assiri).

Mi gridano da Seir:
Sentinella, quanto resta della notte?
Sentinella, quanto resta della notte?
La sentinella risponde:
Viene il mattino, e poi anche la notte;
se volete domandare, domandate,
convertitevi, venite!
(Isaia 21, 11–12)


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(1) Vedi le parole di speranza pronuniate nell’ultima intervista data alla TV il 10 marzo 1986,due mesi prima della sua morte: in G. Lazzati, Pensare politicamente, II, Ed. Ave, Roma 1988, p.445 ss.
Metronomie anno XI Giugno-Dicembre 2004


2. Nessun rimpianto per il giorno precedente.

Una prima riflessione si può fare su questo testo.
Non c’è nessun cenno al giorno precedente: ai suoi pesi,alle sue prove,ai suoi tormenti e alle sue speranze (se ce ne potevano essere). Chi interpella la sentinella, e la sentinella stessa, non si ripiega a considerare – tantomeno a rimpiangere – il giorno prima.
Certo Lazzati non si face va nessuna illusione, nei suoi ultimi anni, su ciò che si stava preparando per la cristianità italiana. Chi ha potuto avvicinarlo allora, avvertiva che la sua coscienza esprimeva un giudizio duro, lucido, su ciò che stava maturando per il nostro Paese, appunto quello a cui stiamo assistendo ora dopo le ultime elezioni: non tanto lo sbandamento elettorale dei cattolici, ma le sue cause profonde, oltre gli scandali finanziari e oltre le collusioni tra mafia e potere politico, soprattutto l’incapacità di “pensare politicamente”, la mancanza di grandi punti di riferime nto e l’esaurimento intrinseco di tutta una cultura politica e di un’etica conseguente.
Perciò Lazzati, se posto di fronte agli ultimissimi accadimenti, non sarebbe stupito né si attarderebbe in vani rammarichi per l’improvvisa caduta dell’espressione politica del cattolicesimo italiano. Io sono sicuro che egli da anni la vedeva per scontata e quasi fatale: pur essendo ben convinto – e con quale vigore! – della validità in sé del patrimonio ereditato dal passato meno recente (anteriore alla prima guerra mondiale e da quello prefascista) e dal passato più recente (soprattutto dei primi lustri del secondo dopoguerra). Tale eredità poteva annoverare una elaborazione culturale, forse modesta, ma vivace; un’opera di formazione vasta e costante , di quadri e di masse; sforzi organizzativi appassionati e perseveranti; e soprattutto tanta fede e tanta speranza e tanti sacrifici di persone umili e realmente disinteressate; e infine, alcuni momenti forti di mediazione civile e politica riconosciuta da molti come valida.
A questa eredità si ricollegava Lazzati e l’ha anche gestita ed arricchita di suo.
Ma non credo che oggi, dopo tanta dissipazione che ne è stata fatta per leggerezza e per disonestà diffusa, egli si attarderebbe a insistervi o per lo meno non direbbe che il problema si riduce principalmente a rivendicare con energia il patrimonio passato e ad “avere l’orgoglio delle proprie ragioni”.
Ragioni appunto del passato: cioè di ieri, o me glio di ieri l’altro. Non abbiamo ancora abbastanza considerato – e direi proprio che non ce ne vogliamo persuadere – quant’acqua sia passata dal 1989: in cinque anni è come se ne fosse passata tanta da sommergere non un’isola, ma un intero continente (l’Europa: e l’Europa soltanto?).
Che non ne siamo ancora persuasi, non siamo solo noi cattolici (o lo siamo solo nelle affermazioni generiche, e poi non ne deduciamo quasi nulla quando si tratta di operare) ma lo sono anche i laici, e in particolare le sinistre nostrane sempre più prive di una cultura aggregante; e persino queste nuove destre, che
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hanno vinto le elezioni sulla scommessa del nuovo, ma che per ora si mostrano ancora attaccate a metodi ve cchi, a soluzioni archeologiche, e persino quando vorrebbero innovare (come fa la Lega) fanno proposte capaci di dare voce alla protesta degli interessi di oggi, e non capaci di interpretare il vero m ovimento della storia, italiana ed europea.

3. La notte va riconosciuta per notte.

Dunque, a parer mio, Lazzati oggi non sarebbe un saggio laudator temporis acti, cioè non si attarderebbe a rimpiangere il passato di ieri o di ieri l’altro, o a riaccreditarlo di fronte agli immemori, ma si immergerebbe consapevolmente nella notte: direbbe con semplicità e forza che la notte è notte, ma sempre con l’anima della sentinella che (se condo un altro testo celebre della Scrittura, il De profundis) è tutta protesa verso l’aurora:

L’anima mia è verso il Signore
più che la sentinella verso l’aurora
più che la sentinella verso l’aurora
(Salmo 129/130, trad. Ravasi)


Pur non guardando al passato, e senza stabilire alcun confronto col tempo di prima, e pur guardando in avanti verso il mattino, la sentinella è ben consapevole che la notte è notte.
Prescindiamo da un disordine più generale, che investe tutta l’Europa (e che ha riflessi speculari sui suoi prolungamenti asiatici e africani). Guardiamo per ora solo all’Italia. Siamo di fronte a evidenti sintomi di decadenza globale.
Anzitutto sul piano demografico: abbiamo il tasso di natalità più basso, sicchè se continuassimo sempre in questo modo, si profilerebbe tra un secolo e mezzo l’estinzione del nostro popolo. E com unque nella nostra società, a un crescente numero di anziani e di vecchi presto non sarà più un valido compenso il numero di giovani e di persone mature. Già oggi i minori di diciotto anni sono solo dieci milioni, su cinquanta, cioè un quinto del totale.
In secondo luogo, sganciato sempre più sistematicamente il matrimonio dal necessario e imprescindibile rapporto con la fecondità, si hanno due conseguenze:
- la fecondità cercata, quando è cercata, per conto suo, cioè non come realizzazione umana della pienezza della personalità, ma come gestione di ingegneria genetica, che finisce quasi sempre con l’essere avulsa da qualunque spiritualità;
- e dall’altra parte l’atto sessuale tende sempre di più a dissociarsi da ogni regola, nella ricerca esclusiva di un piacere che si fa sempre più autonomo e più
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sofisticato, fino alle forme più perverse, come è sempre accaduto nei periodi di decadenza dei popoli e di grave perdita delle culture.
- In terzo luogo questa ossessione del piacere sessuale, come porta a una continua ed eccessiva stimolazione dell’istinto naturale, così lo infiacchisce nelle sue stesse potenzialità naturali (e sono segnalate alte percentuali di questo decadimento). E ancora porta (con altri fattori concomitanti quale l’eccesso furibondo di immagini mediatiche) porta, dico, all’ottundersi delle facoltà superiori dell’intelligenza, cioè la creatività, la contemplazione naturale, il discernimento, per una inabilità alla durata dell’attenzione e del confronto, e quindi dell’elementare capacità critica.
- In quanto luogo la scuola, specialmente la scuola superiore – in gravissimo ritardo nel rinnovamento dei suoi ordini, delle sue strutture e dei suoi programmi – è sempre più inadeguata a compensare questo vuoto desolante: e in certi ambiti locali è fatalisticamente rassegnata a non funzionare più per nulla.
- Infine, al vuoto ideale e conseguentemente etico, si tenta dai più di compensare con la ricerca spasmodica di ricchezza: per molti al di là di ogni effettivo bisogno vitale, elevata a scopo a se stessa. Si verifica così per parecchi ciò che la prima epistola a Timoteo (6,9) chiama il laccio di una bramosia insensata e funesta.

Così, alla inappetenza diffusa dei valori – che realmente possono liberare e pienificare l’uomo – corrispondono appetiti crescenti di cose – che sempre più lo materializzano e lo cosificano e lo rendono schiavo.

Questa è la notte, la notte delle persone: la notte davvero impotente, uscita dai recessi dell’inferno impotente, nella quale la persona è custodita rinchiusa in un carcere senza serrami (Sap. 17,13.15).

4. La notte delle comunità.

In questa solitudine, che ciascuno regala a se stesso, si perde il senso del con-essere (il Mit-sein di Heidegger, cioè l’esserci al mondo insieme: pur esso, però insufficiente, come cercherà di insistere Levinas): e la comunità è fratturata sotto un martello che la sbriciola in componenti sempre più piccole (di qui la fatale progressione localistica) sino alla riduzione al singolo individuo.
E’ appunto il singolo ciò su cui costruisce tutta la sua dottrina l’ideologo della Lega: i diritti sono solo degli individui, il diritto è solo individuale(2). E perciò ri-

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(2)G. F. M iglio, Introduzione a H. D. Thoreau, Disobbedienza civile, A. Mondatori, Milano 1993,p. 24 e passim.
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spetto agli altri non vi possono essere che contratti, in funzione dei rispettivi interessi e del reciproco scambio.

Noi stiamo entrando in un’età caratterizzata dal primato del contratto
e dall’eclissi del patto di fedeltà.


Un’età, dunque, in cui

gli ordinamenti federali sono sistemi in cui si tratta e
si negozia senza soste (3
)

Al che ha già risposto Cacciari, concludendo appunto su Micro Mega il suo dialogo con M iglio: cioè che questo di Miglio è puro occasionalismo (invero alla sua volta teologico, a dispetto della sua grande pretesa di laicità) e che per tale via si ridurrebbe.

il politico a pura contrattazione economica, per dissolvere il sistema in un coacervo di accordi e di convenzioni.

E perciò Cacciari gli ripropone la domanda che aveva già formulato

Che cosa differenzia un tale sistema da quello che
regola gli accordi fra imprese industriali e commerciali?(4)


C’è da chiedersi, a questo punto, se tali degenerazioni non siano insite nella decadenza del pensiero occidentale , come sostiene Levinas. A suo parere, possono essere evitate non con un semplice richiamo all’altruismo e alla solidarietà (5); ma ribaltando tutta la impostazione occidentale, cioè ritornando alla impostazione ebraica originale, nella quale si dissolve proprio questa partenza dalla libertà del soggetto. I figli d’Israele sul Sinai, nel momento più solenne e fondante di tutta la loro storia, quando Mosè propose loro la Legge, hanno detto:

Faremo e udremo (Es 24,7) (6)

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(3)G. F. Miglio, Il negoziato permanente, in “Micro Mega”, 1/94, p. 14-15

(4) M. Cacciari, Dialogo con Miglio, in “Micro Mega” 1/94, p. 10.16-17.

(5) Quanto possono essere vuoti e sterili i richiami (anche cattolici) a una mera solidarietà, si può vedere nell’articolo di E. Berselli, Gli esorcismi della solidarietà, in “Il Mulino”, 5/93, p. 867 ss.

(6)A commento di questo testo e delle deduzioni che già ne traevano i maestri del Talmud, vedi Levinas, Quattro letture talmudiche,Il Melangolo,Genova 1982, p. 67-97, che comincia citando un
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Cioè essi scelsero un’adesione al Bene, precedente alla scelta tra bene e male. Realizzarono così un’idea di una pratica anteriore all’adesione volontaria: l’atto con il quale essi accettarono la Thorà precede la conoscenza, anzi è mezzo e via alla vera conoscenza. Questa accettazione è la nascita del senso, l’evento fondante l’instaurarsi di una responsabilità irrecusabile.

L’accoglimento della Rivelazione è una caratterizzazione
dell’uomo come risposta, come coscienza della
destinazione che porta all’Altro. Ben avanti
ogni sermone edificante, ogni moralismo, ogni paternalismo:
c’è una relazione e una responsabilità che mi costituisce
prima ancora che io possa chiedermi come devo comportarmi
e cosa devo fare (7)


Comunque si può affermare di Lazzati che, anche se non ha svolto queste premesse teoriche, e se ha semplicemente tutto ricondotto – anche l’etica – al mistero di Cristo, suprema fondazione di ogni chiamata dell’uomo, ha però sempre visto il mistero di Cristo indissolubilmente congiunto a una eticità rigorosa e sistematica. Egli ne ha analizzato e approfondito e, quel che più conta,ne ha testimoniato con i fatti, tutte le applicazioni in ogni ambito dell’esistenza personale e comunitaria. Da giovane laico si è impegnato nell’Azione Cattolica e nella cultura. Così, fatto prigioniero, dal primo giorno all’ultimo dei due anni

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detto di Rav Simai: “Quando gli israeliti si impegnarono a fare prima di udire, scesero 600.000 angeli e posero su ciascun israelita due corone: una per il fare, l’altra per l’udire”.
E Levinas continua: “Ciò è motivo di scandalo per la logica, e può essere preso per fede cieca o per l’ingenuità della fiducia infantile (… ). La tradizione ebraica si è compiaciuta di questa inversione dell’ordine normale, in cui l’intendere precede sempre il fare. La tradizione non finirà mai di sfruttare tutto il partito che si può trarre da questo errore di logica, e tutto il merito che sta nell’agire prima di avere inteso (… ), e ha cura di dimostrare che l’ordine in apparenza rovesciato è, al contrario, fondamentale (… ). L’adesione al bene per coloro che dissero: “Faremo e udremo”, non è il risultato di una scelta tra il bene e il male, essa viene prima (… ), è un patto col bene antecedentemente all’alternativa del bene e del male (… ). Segreto di angeli, non coscienza infantile (e cita il Salmo 103, 20, che egli interpreta esattamente come la Vulgata latina: Benedicite Domino, omnes angeli eius: potentes virtutes, facientes verbum illius, ad audiendam vocem sermonum eius, cioè:
Benedite il Signore, voi tutti suoi angeli: virtù potenti, che fate la sua parola, per udire la voce delle sue parole: così anche la LXX e A. Chouraqui, Le cantique des cantiques suivi des psaumes,PUF, Paris 1970, p. 229). Perciò Levinas conclude: ‘La relazione diretta col vero, che esclude l’esame preliminare del suo tenore, della sua idea – voglio dire, l’accoglimento della Rivelazione
– può essere unicamente relazione con una persona, con l’altro. La Thorà è data dalla luce di un viso. L’epifania dell’altro è ipso facto la mia responsabilità nei confronti dell’altro: la visione dell’altro è fin d’ora un’obbligazione nei suoi confronti (… ). La coscienza è l’urgenza di una
destinazione che porta all’altro, non l’eterno ritorno su di sé’.
(7) P. Vinci, Ebraismo e filosofia in E. Levinas, in Aa.Vv., Filosofia ed ebraismo, Giuntina, Firenze 1993, p. 124-127.
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di internamento nei Läger tedeschi, ha incessantemente cercato di infondere speranze e costanza e fedeltà nei compagni di prigionia. Rimpatriato, ha fatto tacere ogni preferenza personale , ha semplicem ente riconosciuto il dovere del momento, e si è impegnato in politica ad tempus e sempre con limpido e nobile rigore e tico. E dopo, con la stessa semplicità, è ritornato ai suoi studi e al suo insegnamento, e soprattutto al suo magistero continuo, col quale inculcava ai più giovani la passione etica nell’esercizio delle singole professioni. E finalmente ha ancora testimoniato la sua superiorità etica nella sua sofferta indipendenza e imparzialità di Rettore all’Università Cattolica. E poi nella sua lunga malattia fino alla morte.

5. L’illusione dei rim edi facili e delle scorciatoie per uscire dalla notte.

Ritornando ora all’oracolo di Isaia, e preso atto che esso parla di notte, e di notte fonda, dobbiamo ancora soggiungere che esso non lascia grandi speranze ai suoi interpellanti: ma con voluta ambiguità, annunzia sì il mattino, ma anche subito il ritorno della notte. L’oracolo del profeta non vuole alimentare illusioni di immediato c ambiamento, e anzi invita a insistere, a ridomandare, a chiedere ancora alla sentinella, senza però lasciare intravedere prossim i rimedi.
Potremo anche per questo aspetto trovare qualche indicazione valida per noi ora, e sempre esempi validi in Lazzati.
Certamente, anzitutto, l’indicazione e l’esempio di una perseveranza durevole che sa, anche nelle circostanze estreme, sfuggire alla tentazione di soluzioni facili e di anticipazioni tattiche.
Oserei aggiungere un consiglio che, a mio avviso, emerge dalla nuova congiuntura che si sta creando nel nostro Paese, proprio in questi giorni dopo la formazione del nuovo governo.
Conviene ripensare alle cause profonde della notte, quali già Lazzati le indicava, agli inizi degli anni ’80, come realtà intrinseche alla nostra cristianità italiana.
Anzitutto una porzione troppo scarsa di battezzati consapevoli del loro battesim o rispetto alla maggioranza inconsapevole. Ancora, l’insufficienza delle comunità che dovrebbero formarli; lo sviamento e la perdita di senso dei cattolici impegnati in politica, che non possono adempiere il loro compito proprio di riordinare le realtà temporali in modo conforme all’evangelo, per la mancanza di vero spirito di disinteresse e soprattutto di una cultura modernamente adeguata; e quindi una attribuzione di plusvalore a una presenza per se stessa, anziché a una vera ed efficace opera di mediazione; e infine l’immaturità del rapporto laici-clero, il quale non tanto deve guidare dall’esterno il laicato, ma proporsi più decisamente il compito della formazione delle coscienze, non a una
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soggezione passiva o a una semplice religiosità, ma a un cristianesimo profondo ed autentico e quindi ad un’altra eticità privata e pubblica (8).
Ebbene, se queste erano, e sono tuttora, le cause profonde della nostra notte,non si può sperare che si possa uscirne solo con rimedi politici, o peggio rinunziando a un giudizio severo nei confronti dell’attuale governo in cambio di un atteggiamento rispettoso verso la Chiesa o di una qualche concessione accattivante in questo o quel campo (per esempio la politica familiare e la politica scolastica).
Evidentemente i cattolici sono oggi posti di fronte ad una scelta che non può essere che globale e innegoziabile, perché scelta non di azione di governo ma di un aut-aut istituzionale. Non si può in nessun modo indulgere alla formula giornalistica della Seconda Repubblica, impropria, anzi erronea imitazione del modo francese di numerare la successione delle forme costituzionali avvenuta nel Paese vicino.
Non si vuol dire, con questo, che nel caso nostro non ci siano cose da cambiare, in corrispondenza delle grosse modificazioni intervenute nella nostra società negli ultimi decenni. E’ molto avvertita, per esempio, una diffusa e pervasiva alterazione patologica dei rapporti tra privati, partiti e pubblica am ministrazione; come pure la pletoricità e macchinosità di un sistema
amministrativo che non si adatta più alle dinamiche di una società moderna; e ancor più la degenerazione privilegiata e clientelare dello stato sociale (tradito); la necessità di una lotta sincera e non simulata alla criminalità organizzata; e infine l’emergenza e la necessità di adeguata valorizzazione di una nuova classe operosa di piccoli e medi imprenditori.
Si può aggiungere l’esigenza di uno sveltimento della produzione legislativa, e perciò la riforma dell’attuale bicameralismo; e soprattutto un’applicazione più effettiva e più penetrante delle autonom ie locali, da perseguirsi, però, al di fuori di ogni mito che tenda a stabilire distinzioni aprioristiche nel seno del popolo italiano e che perciò tenda a scomporre l’unità inviolabile della Repubblica.
Se tutto questo sarà fatto, nel rispetto della legalità e senza spirito di sopraffazione e di rapina, nell’osservanza formale e sostanziale delle modalità costituzionali, non ci può essere nessun pregiudizio negativo, anzi ci deve essere un auspicio favorevole.
Ma c’è una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto. Certo oltrepasserebbe questa soglia una disarticolazione federalista come è stata più volte prospettata dalla Lega. E ancora oltrepasserebbe questa soglia qualunque modificazione che si volesse apportare ai diritti inviolabili civili, politici, sociali previsti dall’attuale Costituzione. E così pure va ripetuto per una qualunque soluzione che intaccasse il principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri fonda-

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(8)G. Lazzati, Il vero scoglio della presenza cattolica, in “Vita e pensiero”, LIV, 1981, n. 10, p. 26, riprodotto in Pensare politicamente, II, cit., p. 333 ss.
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mentali, legislativo esecutivo e giudiziario, cioè per ogni avvio, che potrebbe essere irreversibile, di un potenziamento dell’esecutivo ai danni del legislativo,ancorché fosse realizzato con forme di referendum che potrebbero trasformarsi in forme di plebiscito (9).
Questi oltrepassamenti possono essere già più che impliciti nell’attuale governo: per il modo della sua formazione, per la sua com posizione, per il suo programma e per la conflittualità latente ma non del tutto occultata con il Capo dello Stato. Perciò, più che di Seconda Repubblica si potrebbe parlare del profilarsi di una specie di triumvirato: il quale, verificandosi certe condizioni oggettive e attraverso una manipolazione mediatica dell’opinione, può evolversi in un principato più o meno illuminato, con coreografia medicea (trasformazione appunto di una grande casa economico-finanziaria, in Signoria politica).
In questo senso ho parlato prima di globalità del rifiuto cristiano e ritengo che non ci sia possibilità per le coscienze cristiane di nessuna trattativa, almeno fino a quando non siano date positive, evidenti e durevoli prove in contrario.

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(9) Il referendum deve avere come oggetto un quesito semplice e comprensibile da tutti. Se invece sono presentati più quesiti insieme, e specialmente di natura tecnica-giuridica complessa, le risposte possono diventare non attendibili. Per giunta, soprattutto quando sono circondate da una forte emotività imperniata su una figura di grande seduttore, possono trasformarsi da legittimo mezzo di democrazia diretta in un consenso artefatto e irrazionale che appunto dà luogo a una forma non più referendaria ma plebiscitaria.
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6. Convertitevi!

La sostanza ultima dell’oracolo della sentinella è al di fuori di ogni ambi-
guità: Convertitevi!
La radice ebraica Šuv (... ), impiegata nel libro di Isaia, significa per sé ‘ritornare’. Ma può esprimere anche, specificamente, il rivolgersi a Dio, cioè la conversione (10).
Secondo la sentinella non si tratta tanto di cercare nella notte rimedi esteriori più o meno facili, ma anzitutto di un trasformarsi interiormente, di un dietro-front intimo, di un voltarsi positivo verso il Dio della salvezza.
Radice di questa conversione è anzitutto la contrizione, il pentimento.
Nel caso nostro dobbiamo anzitutto convincerci che tutti noi, cattolici italiani, abbiamo gravemente mancato, specialmente negli ultimi due decenni, e che ci sono grandi colpe (non solo errori o mere insufficienze), grandi e veri e propri peccati collettivi che non abbiamo sino ad oggi incominciato ad ammettere e a deplorare nella misura dovuta.
C’è un peccato, una consapevolezza collettiva: non di singoli, sia pure rappresentativi e numerosi, ma di tutta la nostra cristianità, cioè sia di coloro che erano attivi in politic a sia dei non attivi, per risultanza di partecipazione a certi vantaggi e comunque per consenso e solidarietà passiva.
Ma per quanto fosse convinto ed esplicitato e realizzato nei fatti, questo pentimento non basterebbe ancora. Inquadrandolo nel pensiero di Lazzati – soprattutto degli anni in cui cominciava più direttamente a pensare alla Città dell’uomo – si dovrebbe dire che i battezzati consapevoli devono percorrere un cammino inverso a quello degli ultimi vent’anni, cioè mirare non a una presenza dei cristiani nelle realtà temporali e allo loro consistenza numerica e al loro peso politico, ma a una ricostruzione delle coscienze e del loro peso interiore, che potrà poi, per intima coerenza e adeguato sviluppo creativo, esprimersi con un peso culturale e finalmente sociale e politico. Ma la partenza assolutamente indispensabile oggi mi sembra quella di dichiarare e perseguire lealmente – in tanto baccanale dell’esteriore – l’assoluto primato della interiorità, dell’uomo interiore.
Questo potrebbe sembrare persino ovvio e banale: ma ovvio non è, come appare chiaramente da tanti segnali nel mondo cattolico italiano, da tante affermazioni contraddittorie che si susseguono, da tante preoccupazioni ben altre che di fatto animano gruppi e personalità, vecchie e nuove, del laicato e del clero.
Mi si consenta perciò di precisare meglio che cosa è questo primato dell’interiore.
Muovo fondamentalmente da tre testi di s. Paolo.

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(10) Così qui intendono il testo di Isaia il Targum e l’antica versione siriaca, e dei moderni, oltre al CEI, la Bibbia di Gerusalemme.
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Rm. 7,15-24: Io non riesco a capire neppure ciò che
faccio: infatti non quello che voglio, io faccio, ma
quello che detesto (… ). Io so infatti che in me, cioè
nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desi-
derio del bene, ma non la capacità di attuarlo: in-
fatti io non compio il bene che voglio, ma il male che
non voglio (… ). Io trovo dunque in me questa legge:
quando voglio fare il bene, il male è accanto a me.
Infatti acconsento alla legge di Dio secondo l’uomo
interiore, ma nelle mie membra vedo un’altra legge,
che muove guerra alla legge della mia mente e mi
rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie
membra.


2 Cor. 4,16-18: Per questo non ci scoraggiamo, ma se
anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello
interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il
momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione,
ci procura una quantità smisurata ed eterna di glo-
ria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose vi-
sibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono di
un momento, quelle invisibili sono eterne
.

Ef. 3,14-16: Io piego le ginocchia davanti al Padre,
dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende
nome, perché vi conceda, secondo la ricchezza della
sua gloria, di essere potentemente rafforzati dal suo
Spirito nell’uomo interiore
.


7. L’uomo interiore.

Dal confronto di questi tre testi possiamo ricavare:
- il significato fondamentale, preso dalla filosofia greca volgarizzata, di uomo interiore in s. Paolo;
- e a un tempo il suo slittamento verso il concetto propriamente semitico (ed evangelico, e tipicamente paolino) di uomo nuovo.

Tutt’e due sono indispensabili, a parer mio: e tutt’e due devono essere tenuti presenti e valorizzati nella ricostruzione etica che è necessaria perché la nostra
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conversione sia piena e matura: e perché l’eventuale operare politico dei cristiani si possa effettivamente sottrarre agli errori e alle colpe sinora commesse.
Cominciamo dall’uomo interiore nell’accezione della filosofia greca volgarizzata, ben presente nella frase riferita dell’epistola ai Romani: è l’uom o secondo ragione, secondo il (la mente) che impegna per il meglio le sue facoltà a costruirsi pienamente secondo quelle virtù che chiamiamo cardinali (e che anche gli antichi chiamavano così): la temperanza, la fortezza, la prudenza e la giustizia.
Dobbiamo riconoscere che noi cristiani le abbiamo di fatto trascurate: tutte o quasi tutte, almeno per certe loro parti o implicanze. Abbiamo magari insistito molto sulla temperanza, e in particolare sulla castità, ma assai meno sulla fortezza: che ci possa far sostenere non dico la persecuzione violenta, ma appena il disagio sociale di una certa diversità dall’ambiente che ci circonda, oppure che ci porti ad affrontare il contrasto e la disapprovazione sociale o comunitaria, per difendere esternamente una tesi sentita in coscienza come cogente.
Ancor meno abbiamo insistito sulla giustizia in quanto obbligo di veracità verso il prossimo (e di qui la tendenza a tante dissimulazioni, considerate spesso dai non cristiani tipicamente nostre). Soprattutto non abbiamo saputo raggiungere un senso pieno della giustizia, superando una sua concezione limitata solo a certi rapporti intersoggettivi e sapendola estendere ai doveri verso le comunità più grandi in cui noi siamo inseriti. E’ a questo punto che si è potuto asserire da altri (E. Galli della Loggia), in un ripensam ento della vicenda storica del liberalism o nei confronti del cattolicesimo, nei decenni trascorsi dell’Italia unitaria, che al vuoto religioso o all’anticlericalismo del liberalism o, i cattolici non hanno offerto il compenso che potevano dare e che doveva essere loro proprio, per l’edificazione di un’etica pubblica (11).
Se questo è vero – come può apparire vero anche a prescindere dalla ricostruzione storica del Galli della Loggia, in conformità a molti e insistenti richiami Lazzatiani in materia – dobbiamo riconoscere di avere negli ultimi decenni perduto un’occasione storica unica e probabilmente irrecuperabile, e dobbiamo, pur tardivamente, cercare di riempire il vuoto e di correggere i molti errori e peccati. Dobbiamo ora porci come obiettivo urgente e categorico di formare le coscienze dei cristiani (almeno di quelli che vorrebbero essere consapevoli e coerenti) per edificare in loro un uomo interiore compiuto anche quanto all’etica pubblica, nelle dimensioni della veracità, della lealtà, della fortezza e della giustizia (quanto ancora c’è da fare soprattutto per l’eticità tributaria, oltre le facili giustificazioni forse talvolta ovvie, ma sempre non consentite al cristiano!).

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(11)E. Galli Della Loggia, Liberali che non hanno saputo dirsi cristiani, in “Il Mulino”, 5/93, p. 855 ss.
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8. L’uomo nuovo e la Città dell’uomo.

Ma s.Paolo ci insegna anche che all’uomo interiore si oppone (combatte contro) un’altra legge o forza antitetica che è nelle radici della nostra corporeità intaccata dal peccato.
E la consapevolezza di questo dovrebbe anzitutto portarci tutti all’umiltà: ad edificare i nostri sforzi individuali e collettivi sul presupposto della nostra miserabile fragilità, che fa dire all’Apostolo: sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?
Umiltà, dunque: individuale e collettiva di noi tutti cristiani. Mentre è tanto facile che, come collettività, procediamo con falsa sicurezza, con infelice parrisia, se non con arroganza, che proprio ripensando a tutti questi decenni non dovremmo avere, ma dovremmo piuttosto sentire come ragione di confusione e di vergogna.
L’uomo interiore, tuttavia, può essere salvato, anzi, come dice s. Paolo, rinnovarsi di giorno in giorno se è potentemente rafforzato dallo Spirito di Dio. Allora l’uomo interiore può essere elevato a uomo nuovo, veramente essere in Cristo nuova creazione (2 Cor. 5,17 e Gal. 6,15); rivestito di Cristo come è realmente ogni battezzato (Gal. 3,27).
Può così essere fortificato per ogni combattimento dalla panoplia di Dio (Ef.6,11); cioè rivestito della corazza della fede e dell’amore (I Tes. 5,8), e rivestito, come eletto di Dio, di viscere di misericordia (Col. 3,12).
Ma appunto tutto ciò deve essere di ora in ora implorato da Dio,credendo e confidando nella sua Paternità misericordiosa: piego le ginocchia (… ) perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria (… ).
In ultima analisi, è solo questo che può vincere la notte. Lo squarcio operato nel buio – nel momentaneo leggero peso della nostra tribolazione – dal fulgore dell’enorme, letteralmente – (........................) eterno peso di gloria.
Ma per questo ci vogliono dei battezzati formati ad essere e ad agire nel tempo continuamente guardando all’ultratemporale, cioè abituati a scrutare la storia,ma nella luce del metastorico, dell’escatologia.
Purtroppo siamo invece più spesso abituati al contrario, cioè ad immergerci continuamente e totalmente nella storia, anzi, nella cronaca: la nostra miopia ci fa pensare all’oggi o al massimo al domani (sempre egoistico), non oltre, in una reale dilatazione di spirito al di là dell’io.
C’è un aspetto e una conseguenza particolare di questa auspicabile sanzione della nostra vista – sanzione, dico, operata dal richiamo escatologico – che mi pare, concludendo, di dovere particolarmente segnalare: il ricordare sempre che la Chiesa non è ancora il Regno di Dio: ne è, se mai, il germe e l’inizio (12).
E va aggiunto che delle sue due funzioni: l’evangelizzazione (cioè l’annunzio

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(12) Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, n. 5.
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del Cristo morto, risorto, glorificato) e l’animazione cristiana delle realtà temporali, la seconda spesso può concernere il Regno in modo molto indiretto. Il che porta a concludere che tutte queste realtà temporali che dovrebbero essere ordinate cristianamente (compresa la politica) possono essere finemente e saggiamente relativizzate, secondo le diverse opportunità concrete: e comunque sempre vanno rispettate nella loro autonomia e perseguite da laici consapevoli e competenti che, come diceva Lazzati,

vivono gomito a gomito, per così dire, degli uomini
del loro tempo e di varia estrazione culturale… .
attraverso il confronto e il dialogo,
naturalmente senza perdita della propria identità,
sempre nel rispetto della natura di tali realtà
e della loro legittima autonomia,
con sincero sforzo di comprendere l’altro (13)


E questa è la via – diurna e non notturna – verso la Città dell’uomo, nella prospettiva sempre intensamente mirata della Città celeste, della Nuova Gerusalemme.

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G. Lazzati, La Chiesa nella città dell’uomo, in Pensare politicamente, II, cit., p. 431.
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Alda Merini-Io non ho bisogno di denaro


«Io non ho bisogno di denaro.
Ho bisogno di sentimenti,
di parole, di parole scelte sapientemente,
di fiori detti pensieri,
di rose dette presenze,
di sogni che abitino gli alberi,
di canzoni che facciano danzare le statue,
di stelle che mormorino all’ orecchio degli amanti.
Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia la pesantezza delle parole,
che risveglia le emozioni e dà colori nuovi».

(Alda Merini, Terra d’Amore, 2003)