mercoledì 30 marzo 2011

morte del Museo dell'Emigrazione Veneta


Quale futuro può avere un popolo che rinuncia alla memoria del suo passato?
Come si può andare da qualche parte se non si sa da dove si viene?
Quale futuro può avere un popolo che rinuncia alla memoria del suo passato?
Forse sono di parte, perché so cosa vuol dire essere figlio d'emigrante, ma è evidente che anche in quest’occasione il Veneto ha perso l’opportunità di divenire un punto di riferimento nel mondo.
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In questi giorni è apparso sul Gazzettino di Padova un articolo che sintetizza la morte definitiva del Museo dell’Emigrazione Veneta sul quale vale la pena di soffermarsi. Già l’occhiello del titolo scritto in minuscolo (museo dell’emigrazione veneta) dimostra il poco rispetto e l’ignoranza nei riguardi del secolare fenomeno dell’emigrazione costruita con i sacrifici dei nostri Emigrati.
E questo è solo l’inizio perché i commenti che mi sono pervenuti a riguardo sono molti e rammaricati. Fra gli altri quello di Massimo Russo, uno dei ventimila Italiani cacciati dalla Libia nel 1970, che stigmatizza l’accantonamento del progetto di un Museo dell’Emigrazione Veneta voluto dal sindaco di San Giorgio in Bosco.
Purtroppo l’attuale amministrazione comunale sangiorgese è ancora ferma alla demagogia e al populismo. Magari è attenta alla buca sulla strada o al punto luce, ma non sa alzare gli occhi oltre i problemi contingenti, far crescere il paese, investire sul futuro. Nella sua arroganza trasferirà a Villa Bembo tutti gli uffici comunali, come se finora non avessero una sede adeguata. E’ evidente che il sindaco ora potrà avere l’ufficio al piano nobile, come se le Barchesse non fossero sufficientemente prestigiose per lui. Forse dimentica che i contributi per restaurare Villa Bembo sono in gran parte merito di un illustre Emigrato di San Giorgio in Bosco, il Sen Luigi Pallaro, partito da Lobia e ora residente a Buenos Aires.
Voler sminuire il progetto culturale regionale, relegandolo a una sezione sull'Emigrazione Veneta presso la biblioteca non è sufficiente.
Un Museo dell'Emigrazione del Veneto deve essere un luogo che narra la storia, i sacrifici, i successi di coloro che, costretti a lasciare il Veneto, l'hanno aiutato poi a crescere con le loro rimesse. Un Museo in sinergia con Regione Veneto, Province, Associazioni storiche dell’Emigrazione, Università, Comuni del Veneto, Organizzazioni Religiose che dedicano la loro Pastorale ai nostri Emigrati.
Emigrati, che hanno conservato in tutti i Paesi dove li ha portati la necessità di migliorare la loro condizione, le tradizioni, il dialetto, la religiosità del Veneto. Emigrati ormai di terza e quarta generazione, che guardano con ammirazione al Veneto, alla sua cultura, ai suoi prodotti. Loro sono i nostri migliori ambasciatori nel Mondo, ma se rinunciamo a riagganciare i rapporti con queste generazioni, li perderemo per sempre. Sarebbe il più grande investimento, in un momento di saturazione economica interna, per dare prospettive alla nostra regione. Non solo quindi memoria e vecchie valigie, ma un portale internet con collegamenti agli archivi dei Distretti di Leva militare in Veneto e ai registri di sbarco all’estero, links dei Musei e dei Centri studi in Italia e all’estero, contatti con le Associazioni degli Emigrati in Veneto e all’estero, premi per le Tesi di laurea in materia di Emigrazione, gemellaggi, scambi di delegazioni che darebbero a San Giorgio in Bosco la visibilità che non ha mai avuto. Sarebbe il punto di raccolta di banche dati, come quella dell’anagrafe civile del periodo Lombardo-Veneto (1816-1871), che quest’amministrazione ha abbandonato. Il luogo di promozione di visite di scolaresche e di famiglie, convegni, pubblicazioni, festival di film e documentari sui temi dell'Emigrazione dei Veneti nel Mondo. Il Museo creerebbe un circuito virtuoso di persone che porterebbero benefici anche ai nostri esercizi pubblici e che rilancerebbe l'immagine del nostro paese già conosciuto in tutto il Mondo grazie al progetto del Museo e agli interventi dell’Associazione Erika. L’Emigrazione, dopo essere stata per l’Italia una grande tragedia, può diventare ora una grande occasione, umana, economica e di riscoperta del nostro passato.
Ben vengano le iniziative alle quali partecipano anche gli Amministratori comunali come la Festa dei Veneti nel Mondo, ma non dimentichiamo che la storia dell’emigrazione è tutt’altra cosa. Non certo riducibile a lustrini, apparizioni televisive o articoli di giornale. Non riconoscendo la memoria si perde di vista il presente e ancor più il futuro dei sangiorgesi.
Le rose del deserto, le rose di Acatama, sono sempre lì e fioriscono una volta l’anno, ma a San Giorgio in Bosco, il Paese dell’acqua, non fioriranno mai.

San Giorgio in Bosco, 28 marzo 2011

Leopoldo Marcolongo, già Sindaco di San Giorgio in Bosco

lunedì 28 marzo 2011

UN MUSEO DELL’EMIGRAZIONE VENETA per celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia




Sono passati ormai 140 anni dalle prime grandi emigrazioni di Italiani nel mondo e 50 dall’ultima grande emigrazione. 27 milioni di Italiani hanno dovuto lasciare l’Italia per cercare fortuna all’estero. Gli emigrati, ormai di 4° e 5° generazione, vengono stimati in 50 milioni con i loro discendenti, un’altra Italia fuori dai confini nazionali che aspetta riconoscenza dalla madrepatria.
Storie in gran parte di sacrifici, a volte di successi, che non possiamo dimenticare perché hanno contribuito alla crescita del nostro Paese. Una storia che si dovrebbe studiare a scuola per capire meglio la nostra identità ora che il fenomeno si è invertito.
L’associazionismo negli ultimi 50 anni ha svolto un compito enorme nel mantenere i contatti con i nostri emigrati, nel sostenere la lingua, la cultura e le tradizioni italiane, nell’aiuto a chi era in difficoltà.
I nostri emigrati non hanno mai dimenticato le loro origini italiane e guardano al nostra Paese con nostalgia gli anziani, con interesse i giovani, sentendosi dimenticati. Sono milioni di persone, orgogliose delle loro origini, che aspettano di essere contattati. Sono i nostri “ambasciatori” ai quali possiamo offrire cultura, lingua italiana, tradizioni, ma anche prodotti italiani che loro prediligono, a parità di condizioni con altri Paesi.
Un Museo serve quindi, oltre che a raccogliere ricordi e studi, a riallacciare, grazie anche alle nuove tecnologie, i rapporti con le ultime generazioni di giovani, prima che perdano definitivamente i contatti con il loro Paese di origine.

L’Italia ha inaugurato nel 2009 il Museo dell’Emigrazione Nazionale negli spazi della Gipsoteca del Vittoriano, a Roma, che coordinerà i Musei regionali.
Il Veneto con i suoi 3,5 milioni di emigrati, è stata la Regione che più di tutte ha subito l’Emigrazione. Un Museo Regionale dell’Emigrazione sarebbe il fiore all'occhiello della Regione Veneto, una casa comune aperta alle Associazioni dell’Emigrazione, alle Università, ai Comuni, alle Provincie, alle Pastorali dei Migranti delle Diocesi, alle Scuole.
A San Giorgio in Bosco (Padova) sono terminati i lavori di restauro di Villa Bembo, splendida Villa Veneta del ‘600 di proprietà del Comune. I finanziamenti del restauro dell’edificio monumentale ad uso pubblico per centro culturale e museo, sono stati di 1.800.000 euro, parte della Regione Veneto per 379mila euro, parte dei Fondi dell’Otto per mille per 721mila euro e i rimanenti 700mila euro a carico del Comune stesso.
La documentazione più importante conservata a San Giorgio in Bosco, per ora presso la biblioteca, assieme a una vasta rassegna di libri sull’Emigrazione, è l’unica raccolta in Italia dei libri di Frei Rovilio Costa di Porto Alegre. A San Giorgio in Bosco inoltre ha sede InfoVeneto, rivista della Regione Veneto sull’Emigrazione. E’ già partita la Banca dati dei registri civili dell'anagrafe Austro-Ungarica (1816-1871) in collaborazione con l’A.R.S.A.S. ,“Associazione per il Recupero e la Salvaguardia degli Archivi Storici”, progetto da estendere a tutti i Comuni del Veneto per creare un’unica banca dati a servizio dei nostri emigrati.
Il Museo quindi c’è già. Per la gestione serve ora solo una Fondazione da promuovere da parte della Regione Veneto.
Far partire il Museo dell’Emigrazione Veneta sarà anche il modo migliore per celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia, riconoscendo nell’esperienza migratoria di questi Veneti che da lontano hanno contribuito a creare quello che siamo oggi, un elemento fondamentale dell’identità regionale e nazionale.
Non è più tempo di ragionare per separatezze, è il tempo di costruire cattedrali, di unire le forze per farne una realtà regionale che, riscoprendo il passato, guardi al futuro.

4 marzo 2011
Leopoldo Marcolongo già sindaco del Comune di San Giorgio in Bosco

mercoledì 5 gennaio 2011

MUSEO DELL’EMIGRAZIONE VENETA di San Giorgio in Bosco


Sono passati ormai 140 anni dalle prime grandi emigrazioni di Italiani nel mondo e 50 dall’ultima grande emigrazione. 27 milioni di Italiani hanno dovuto lasciare l’Italia per cercare fortuna all’estero. Gli emigrati, ormai di 4° e 5° generazione, vengono stimati in 50 milioni con i loro discendenti, un’altra Italia fuori dai confini nazionali che aspetta riconoscenza dalla madrepatria.
Storie in gran parte di sacrifici, a volte di successi, che non possiamo dimenticare perché hanno contribuito alla crescita del nostro Paese. Una storia che si dovrebbe studiare a scuola per capire meglio la nostra identità ora che il fenomeno si è invertito.
L’associazionismo negli ultimi 50 anni ha svolto un compito enorme nel mantenere i contatti con i nostri emigrati, nel sostenere la lingua, la cultura e le tradizioni italiane, nell’aiuto a chi era in difficoltà.
I nostri emigrati non hanno mai dimenticato le loro origini italiane e guardano al nostra Paese con nostalgia gli anziani, con interesse i giovani, sentendosi dimenticati. Sono milioni di persone, orgogliose delle loro origini, che aspettano di essere contattati. Sono i nostri “ambasciatori” ai quali possiamo offrire cultura, lingua italiana, tradizioni, ma anche prodotti italiani che loro prediligono, a parità di condizioni con altri Paesi.
Un Museo serve quindi, oltre che a raccogliere ricordi e studi, a riallacciare, grazie anche alle nuove tecnologie, i rapporti con le ultime generazioni di giovani, prima che perdano definitivamente i contatti con il loro Paese di origine.

L’Italia ha inaugurato nel 2009 il Museo dell’Emigrazione Nazionale negli spazi della Gipsoteca del Vittoriano, a Roma, che coordinerà i Musei regionali.

Il Veneto con i suoi 3,5 milioni di emigrati, è stata la Regione che più di tutte ha subito l’Emigrazione. Il Museo Regionale dell’Emigrazione sarebbe il fiore all'occhiello della Regione Veneto, una casa comune aperta alle Associazioni dell’Emigrazione, alle Università, ai Comuni, alle Provincie, alle Pastorali dei Migranti delle Diocesi.
A San Giorgio in Bosco (Padova), nel dicembre 2010, termineranno i lavori di restauro di Villa Bembo, splendida Villa Veneta del ‘600 di proprietà del Comune. I finanziamenti del restauro dell’edificio monumentale ad uso pubblico per centro culturale e museo, sono stati di 1.800.000 euro, parte della Regione Veneto per 379mila euro, parte dei Fondi dell’Otto per mille per 721mila euro e i rimanenti 700mila euro a carico del Comune stesso.
La documentazione più importante conservata a San Giorgio in Bosco, per ora presso la biblioteca, assieme a una vasta rassegna di libri sull’Emigrazione, è l’unica raccolta in Italia dei libri di Frei Rovilio Costa di Porto Alegre. A San Giorgio in Bosco inoltre ha sede InfoVeneto, rivista della Regione Veneto sull’Emigrazione. E’ già partita la Banca dati dell'anagrafe Austro-Ungarica (1816-1871) in collaborazione con la Diocesi di Vicenza, progetto da estendere a tutti i Comuni del Veneto per creare un’unica banca dati a servizio dei nostri emigrati.

I costi futuri saranno la sola gestione, essendo già tutti pagati quelli del restauro. Per l’allestimento c’era l’interesse della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo.
Per la gestione serve ora una Fondazione da promuovere da parte della Regione Veneto:
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“Partecipazione della Regione del Veneto alla costituenda Fondazione “Museo dell’Emigrazione Veneta”.
1. La Giunta regionale, al fine di favorire la realizzazione e la valorizzazione della Villa Bembo nel Comune di San Giorgio in Bosco (PD), quale luogo dedicato alla storia e alla conservazione delle memorie dell’emigrazione dei Veneti, è autorizzata a partecipare, in qualità di socio fondatore, alla costituenda Fondazione “Museo dell’Emigrazione Veneta”.
2. La Giunta regionale è autorizzata a compiere, in accordo con il Comune di San Giorgio in Bosco (PD), tutti gli atti necessari alla costituzione della fondazione di cui al comma 1.
3. Il Presidente della Giunta regionale o un suo delegato esercita i diritti inerenti la qualità di socio fondatore della Regione del Veneto.
4. La Giunta regionale è inoltre autorizzata ad erogare alla Fondazione di cui al comma 1 un contributo annuale per la gestione e il funzionamento.
5. Agli oneri derivanti dall’attuazione del presente articolo, quantificati in euro ……………. per l’esercizio 2011, si fa fronte con le risorse allocate ……...”
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Nella Consulta dei Veneti nel Mondo del 2008 a Marostica, l'Ass. Reg. Oscar De Bona ha verbalizzato: "...Per quanto riguarda la proposta di creare un centro di documentazione sull'Emigrazione Veneta dichiara di condividere l'idea che il centro possa trovare collocazione presso il futuro Museo sull'Emigrazione di San Giorgio in Bosco, Padova...". Anche il Prof. Gianpaolo Romanato dell'Università di Padova "...propone di supportare il Museo di San Giorgio in Bosco che è già partito...".

Nell’ultima Consulta dei Veneti nel Mondo del 2009 in Uruguay, L’Ass. Oscar De Bona ha ribadito: “… Per quanto riguarda il museo dell’Emigrazione informa che intende approfondire con l’amministrazione comunale di San Giorgio in Bosco sulle intenzioni riguardanti il completamento del progetto….” e il Prof. Gianpaolo Romanato “…Si auspica che non vada persa l’iniziativa del museo di San Giorgio in Bosco come centro di documentazione anche in previsione dell’insegnamento della storia dell’Emigrazione tenendo conto del fatto che dispone già di quasi tutta la collezione delle pubblicazioni di Rovilio Costa. Sottolinea la necessità di incrementare un rapporto più stretto e più profondo fra associazionismo e cultura….”.


Fare il Museo dell’Emigrazione Veneta sarà anche il modo migliore per celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia, riconoscendo nell’esperienza migratoria di questi Veneti che da lontano hanno contribuito a creare quello che siamo oggi, un elemento fondamentale dell’identità regionale e nazionale.

Non è più tempo di ragionare per separatezze, è il tempo di costruire cattedrali, di unire le forze per farne una realtà regionale che guardi al futuro.


Rovigo, 26 novembre 2010

Leopoldo Marcolongo già sindaco del Comune di San Giorgio in Bosco

sabato 27 novembre 2010

Avvenire 25 novembre 2010-Immigrati respinti dall'Italia


Cominciamo con la drammatica vicenda dei profughi eritrei – respinti prima che potessero approdare in Italia e ora in situazione precaria in Libia – una serie di pagine di inchiesta su 'che fine hanno fatto' persone la cui sorte è stata al centro dell’attenzione dei media o vicende che hanno sollevato grandi dibattiti nel Paese, salvo poi sparire all’improvviso dagli articoli dei giornali. Pagine per evitare di dimenticare situazioni drammatiche o per capire cosa ha funzionato e cosa no. Pronti a far tesoro anche dei suggerimenti dei lettori.
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I respingimenti, il carcere e le torture

L’ ultimo capitolo di una già lunga odissea comincia il 6 luglio 2010 quando, dopo una settimana di prigionia nel durissimo carcere di Al Braq, in mezzo al deserto, 200cittadini eritrei vennero scarcerati, fu loro concesso un permesso temporaneo e il divieto di lasciare la città di Sebah, 75 chilometri a nord.

Divieto che nessuno ha mai osservato.

Erano arrivati lì dopo un viaggio di 12 ore chiusi in un camion, senza acqua né cibo e con temperature fino a 50 gradi.

Provenivano dal carcere di Misurata, dove già da tempo erano rinchiusi insieme a 50 donne eritree, liberate anche loro il 6 luglio.

Si erano ribellati quando nel centro di detenzione era entrato un diplomatico eritreo per identificarli.

Così era scattata la deportazione, per punizione: da Al Braq non si torna. Le donne no, erano rimaste a Misurata a subire altre violenze e umiliazioni.

La loro colpa? Essere tutti fuggiti da una dittatura che li recluta a vita nell’esercito. E di voler chiedere asilo in Italia passando per il Mediterraneo.

Gli ultimi in ordine di tempo, una ventina, erano stato intercettati domenica 6 giugno scorso in acque internazionali, a circa 20 miglia da Lampedusa, da una nave militare libica, arrivata probabilmente su segnalazione delle autorità italiane o maltesi.

Ad Al Braq nonostante le torture e i continui insulti, i 200 reclusi si sono rifiutati di firmare i fogli di rimpatrio.

Resistere è stata la mossa decisiva per la loro salvezza. L’agenzia Habeshia, che ha mantenuto i contatti con loro diffondendo sul suo blog le notizie in tempo reale, è riuscita a sensibilizzare numerose organizzazioni umanitarie provocando alla fine l’intervento di Roma. (P.Lam.)

le tappe

Da questa estate in cerca di un approdo

50 donne sono state sottoposte a stupri e atti degradanti

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profughi

Una parte degli immigrati respinti dall’Italia ha tentato di raggiungere Israele ma è bloccato nel Sinai. Il resto non ha documenti e finirà in carcere


DI PAOLO LAMBRUSCHI

Prigionieri nel Sinai, in catene co¬me schiavi, ostaggio dei traffi¬canti egiziani. Così è finita una parte consistente, ben 80 dei 255 eritrei che nel luglio scorso avevano rischiato di morire nella famigerata prigione libica di Al Braq, in pieno Sahara, dopo essere stati respinti in mare dall’Italia e poi liberati grazie alla pressione delle organizzazioni umanitarie sul nostro governo. Un mese fa alcuni di loro sono fuggiti dalle sabbie libiche alla volta di Israele, su una delle nuove rotte della disperazione verso l’Europa, che ora incrociano il Medio Oriente e la Turchia, a rischiare di morire in un altro deserto. L’allarme è stato lanciato ieri, esattamente come l’estate scorsa, dal blog dell’agenzia di cooperazione allo sviluppo Habeshia. Secondo la quale ci sono 600 persone in condizioni disperate da oltre un mese nel deserto al confine tra Egitto e Israele, prigioniere del racket. Oltre agli 80 eritrei fuggiti da Tripoli, somali e sudanesi. Tra questi, vi sono anche donne, segnala il blog curato da Roma dal sacerdote cattolico eritreo Mosè Zerai. Ciascuno ha versato al racket 2.000 dollari. Ma i trafficanti ne pretendono altri 8.000.

«Gli eritrei – racconta don Mosè – mi hanno raccontato di aver lasciato Tri¬poli per raggiungere Israele dall’Egitto. Ma nel corso del viaggio i trafficanti hanno tradito gli accordi e il prezzo è aumentato. Così li hanno sequestrati». Sulla loro drammatica condizione sappiamo solo quanto hanno raccontato al prete. «Dicono di trovarsi nel Sinai, segregati dai beduini nelle case nel deserto, ma non sanno dire dove perché sono stati incappucciati durante gli spostamenti. Da un mese sono legati con le catene ai piedi, come si faceva nel commercio degli schiavi, continuamente minacciati e da 20 giorni non toccano acqua per lavarsi. Vi sono anche donne debilitate dalla mancanza di cibo e dalla scarsa igiene».

Non sono i primi a subire questa sor¬te. Questa forma di sequestro che sfrutta la disperazione dei profughi è redditizia. Già un anno fa l’agenzia Fortress Europe segnalava questa nuova rotta che parte dal Cairo verso la frontiera israeliana nel Sinai e dalla quale passano mille persone al mese, quasi tutti eritrei ed etiopi. Nei casi peggiori i passeggeri dopo aver pagato sono abbandonati lungo il confine. «Purtroppo – aggiunge don Mosè – questa situazione è anche frutto della chiusura delle frontiere dell’Europa. i richiedenti asilo provenienti dal Cor¬no D’Africa non hanno alternative e si affidano ai sensali di carne umana». Ieri il senatore Pietro Marcenaro, presidente della Commissione straordinaria per i Diritti Umani, ha presentato un’interrogazione urgente al ministro degli Esteri in cui si chiede di verificare la situazione degli 80 eritrei trattenuti in Egitto e di muovere tutti i passi necessari nei confronti del governo del Cairo per salvarli.

Ma torniamo in Libia, dove a luglio e¬splodeva il caso di 205 uomini e 50 donne fuggiti dall’Eritrea. Nel 2009 e nel 2010 avevano tentato di passare per l’antica rotta del Mediterraneo ed erano stati respinti in mare e poi arrestati. Ai primi di giugno, ad esempio, una ventina di eritrei venne intercettata e respinta su un barcone diretto in Italia in circostanze mai chiarite. Videro un’imbarcazione con bandiera italiana e si avvicinarono, ma a bordo c’erano militari libici che li riportarono indietro. Il ritorno fu drammatico. «Una persona è anne¬gata in mare, altri tre che conoscevano l’arabo sono stati malmenati perché si sono ribellati. Da quasi sei mesi nessuno ha più notizie di loro. Una donna e il suo bambino di otto mesi sono stati incarcerati al buio per ore senza ricevere cibo né acqua.». A fine giugno, dopo una rivolta nel centro di detenzione libico di Misurata, i maschi vennero trasferiti nel durissimo carcere di Al Braq, a Sebha, a sud, nel deserto.
Le donne rimasero a Misurata e furono sottoposte a violenze e atti degradanti.

Ma ai primi di luglio qualcuno riuscì ad avvisare don Zerai, che rilanciò la notizia su Habeshia. Allora i 255 vennero rilasciati approfittando della nuova legge varata da Tripoli contro l’immigrazione clandestina che prevedeva una sanatoria, con un permesso provvisorio di tre mesi e il divieto di lasciare la città. Ora, però, i permessi sono scaduti e siamo da capo.

«Chi non è fuggito è intrappolato nel¬le città libiche – chiarisce il sacerdote – senza diritti. In tutto in Libia vi sono un migliaio di eritrei, tutti a luglio han¬no beneficiato della sanatoria. Chi ha potuto si è spostato verso Tripoli o Bengasi e lavora in nero. Per rinnova¬re il permesso devono, però, presentarsi con il passaporto eritreo e un con¬tratto di lavoro. Altrimenti devono rivolgersi alle autorità diplomatiche del loro Paese. Naturalmente non possono farlo in quanto rifugiati».

Chi va in ambasciata rischia infatti la deportazione o vendette contro i con¬giunti rimasti nel Corno d’Africa. Ma, se non rinnovano il permesso, si spalancano le porte delle carceri. «Ho appena ricevuto – racconta il prete – chiamate che riferiscono di retate della polizia casa per casa. E tornare in quelle prigioni è terribile: vivono ammassati e senza potersi lavare, sono maltrattati. Molte donne sono state violentate e messe incinta dalle guardie carcerarie ». Chi può fugge allora dall’inferno, come gli 80 ora però imprigionati nel Sinai.

Stando alla convenzione sui diritti umani queste persone non sono criminali, ma avrebbero diritto a chiedere asilo e ad essere protette dai governi della civilissima Europa.
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Il Cir: «L’ultima speranza è l’Unione europea»


A novembre sembra essere calata una pietra tombale sulle speranze dei rifugiati eritrei bloccati in Libia. Ma se l’Ue fa la sua parte, non è ancora detta l’ultima parola.

Ricapitoliamo. Per la legge libica non esistono "rifugiati", solo immigrati regolari o no. Ad oggi quello di Tripoli è l’unico governo africano a non aver mai siglato la convenzione di Ginevra del 1951 sui diritti umani che riconosce il diritto d’asilo. La politica del colonnello Gheddafi è questa e per ora non cambia. E dato che non esistono rifugiati, il governo lo scorso 8 giugno ha intimato all’Acnur, l’Alto commissariato delle Nazioni U¬nite per i rifugiati di chiudere l’ufficio, in seguito riaperto solo per i casi pregressi. Dallo scorso giugno l’unica organizzazione umanitaria occidentale rimasta a Tripoli è il Consiglio italiano per i rifugiati, Cir, partner dell’Acnur, che opera attualmente con una ong libica. Al direttore, Cristopher Hein, chiediamo cosa è cambiato in Libia in questo mese di novembre.

Quali prospettive ci sono che l’Acnur riapra l’ufficio tripolitano e torni ad analizzare le pratiche dei rifugiati?

Le autorità di Tripoli il 12 novembre hanno respinto a Ginevra le raccomandazioni dell’Onu di adottare una legislazione sull’asilo e di firmare un’intesa sulla pre¬senza dell’Alto commissariato nel Paese. La Libia ha respinto tra l’altro anche la raccomandazione di abolire la pena di morte e di garantire l’uguaglianza delle don¬ne davanti alla legge e nei fatti. Al momento mi sembra difficile fare previsioni.

Cosa è cambiato giuridicamente per gli eritrei?

Rispetto allo scorso luglio il loro permesso temporaneo è scaduto e devono ripresentarsi alla polizia con un documento del Paese d’origine che dimostri la loro identità. Questo esclude i profughi eritrei la cui situazione ora è tornata preoccupante.

Cosa rischiano?

Il carcere per il reato di clandestinità. Qualcuno per disperazione è fuggito in Egitto, dove ora sappiamo cosa rischiano, o è tornato in Sudan, le cui autorità agiscono a intermittenza: a volte sono tolleranti, altre li rimpatriano condannandoli a morte o ai lavori forzati per diserzione.

Ma dalle trattative in corso con l’Onu non può venire qualche spiraglio?

Al momento tutto pare fermo sul fronte del Palazzo di vetro. Guardo invece con maggiore interesse agli sviluppi dei rapporti con l’Ue. La commissaria europea per l’immigrazione Maelmstrom ha di recente con¬cluso un accordo di circa 50-60 milioni di euro con la Libia. Inoltre è imminente il vertice di Tripoli tra Unione europea e Unione africana dove si parlerà anche di flussi migratori. In questa fase ai libici interessa raggiungere un’intesa con l’Europa che riguardi anche il commercio e il turismo. Ma è chiaro che Bruxelles non può stringere accordi commerciali con un Paese che non garantisce il rispetto dei diritti umani.
Le speranze per i rifugiati possono quindi venire dalle pressioni europee.

Oggi sono cambiate le rotte africane verso la Libia?

Gli arrivi continuano, in particolare dai Paesi del Corno d’Africa, ma in misura minore. C’è chi tenta di spostarsi verso l’Egitto per poi raggiungere l’Europa verso la Turchia. C’è stato uno spostamento di somali verso il Sudafrica, ma quello Stato l’anno scorso ha avuto il maggior numero di rifugiati e probabilmente è saturo.

Paolo Lambruschi
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Per il presidente del Consiglio per i rifugiati le trattative con l’Onu sono a un punto morto, mentre al vertice tra Ue e Unione africana si dovrebbe discutere di migrazioni

martedì 16 novembre 2010

Santa Francesca Cabrini-Avvenire 14 novembre 2010



La maestra che riscattò gli italiani d’America


DI ELIO GUERRIERO

« Gli italiani qui sono trattati come schiavi ». Diceva così madre Cabrini al primo impatto con la realtà americana verso il 1890. Partita da Lodi su impulso del vescovo di Piacenza, don Giovanni Battista Scalabrini e di Leone XIII, due tra gli spiriti più sensibili alla questione sociale e al disagio dei migranti italiani all’estero, aveva aperto una scuola nei quartieri più degradati di New York. Terminate le lezioni, come già faceva nei paesi del lodigiano, non rimaneva nella tranquillità del piccolo appartamento che condivideva con le sue discepole, ma vagava per la città entrando senza paura in ambienti spaventosi per miseria e violenza. Poté allora constatare che le richieste erano enormi e le sue risorse misere. Non si perse d’animo. Con spirito imprenditoriale mise a punto una tecnica che presto diede risultati insperati. Si recava dagli italiani che avevano fatto fortuna e li convinceva a farsi carico delle difficoltà dei più poveri. Le sue argomentazioni: si guadagnavano la riconoscenza dei connazionali, li aiutavano a inserirsi nel crogiolo delle etnie e delle culture presenti in America, il famoso melting pot, tutti insieme guadagnavano di prestigio nella società. Per ottenere questi risultati erano importanti le scuole e una formazione adeguata. Queste proposte erano avanzate con l’entusiasmo di una trascinatrice. Ha testimoniato la moglie del console italiano: dopo le prime fondazioni, la madre «non chiedeva. Erano gli ammiratori della sua opera che si sentivano spinti ad aiutarla ». Poté fondare allora un gran numero di scuole strategicamente sparse in tutti gli Stati Uniti.

Né l’opera della Cabrini si fermò al Nord. Già nel 1891 un viaggio avventuroso la portò in Nicaragua dove poté aprire diverse scuole. Al ritorno passò da New Orleans dove la comunità italiana viveva in una situazione di tensione e disagio. La madre la riorganizzò in 4 o 5 mesi. Seguirono tre viaggi in Argentina e uno in Brasile sempre con lo scopo di aprire delle case dell’istituto e delle scuole per l’integrazione degli emigranti italiani nella società americana.

All’azione in campo scolastico, seguì l’intervento in ambito sanitario. L’ospedale Columbus di New York, da poco fondato, correva il rischio di chiudere per fallimento. Madre Cabrini lo rilevò e lo dotò di attrezzature scientifiche all’avanguardia. In pochi anni il Columbus era diventato uno dei più importanti istituti medici della metropoli. L’ultimo campo di azione della madre furono le carceri dove gli italiani, di umili origini e con scarse conoscenze della lingua, erano impossibilitati a difendersi. Le suore di madre Cabrini riuscirono a riaprire alcuni processi ingiusti e a ripristinare i rapporti dei detenuti con le famiglie.

Oggi la stazione Centrale di Milano viene dedicata a santa Francesca Cabrini, patrona degli emigranti. Un gesto simbolico che acquisterà pienezza di significato se accompagnato dalla strategia dell’accoglienza basata sui cardini individuati dal genio della santa: scuola dell’integrazione, ospedali d’avanguardia, carceri a dimensione umana. La carità immagina ed edifica una città armoniosa in cui possano convivere in pace uomini di razze e culture diverse.

lunedì 20 settembre 2010

Una democrazia fondata sui sondaggi

Domenica 19 Settembre 2010, Il Gazzettino
Una democrazia fondata sui sondaggi
di Romano Prodi

L’Europa è un’ “Unione di minoranze”. Questa definizione così bella e sintetica mi fu rivolta da un parlamentare appartenente a una piccola minoranza etnica di uno dei nuovi paesi che stava entrando nell’Unione Europea.
E con commovente semplicità il parlamentare continuò il suo discorso spiegando che suo nonno era stato perseguitato perché appartenente a una minoranza etnica e suo padre era stato esiliato per lo stesso motivo. Ed egli voleva perciò che il suo paese entrasse nell’Unione Europea perché essa è un’Unione di minoranze.
In tutti i miei discorsi successivi ho fatta mia questa definizione perché essa ha un duplice significato. Il primo è un significato politico e che cioè nessun paese, per quanto grande esso sia e per quanto forte possa essere la sua economia, potrà dominare sugli altri ed essere il padrone del continente. Ed è questa garanzia che ha reso possibile lo sviluppo, la pace e la solidarietà del mezzo secolo di storia che ci sta alle spalle. Il secondo significato è ancora più forte, e che cioè tutti i cittadini europei sono uguali e non possono essere discriminati per la loro appartenenza a una razza o a una religione.
Il ruolo che l’Europa ha nel mondo è proprio quello di assicurare che il paese potente non opprimerà mai quello debole e una comunità potente non opprimerà quella debole. Riguardo al primo aspetto i nostri governi non sembrano più volere prendere in considerazione la necessità di cooperare fra di loro riconoscendo alle istituzioni comunitarie il ruolo di proposta per le evoluzioni future del progetto europeo e il ruolo di arbitro nelle controversie presenti. Da queste evoluzioni negative sono nate le difficoltà che hanno trasformato il modesto problema greco in un pericolo per tutta l’Europa.
Le decisioni del presidente francese nei confronti dei rom hanno messo in crisi il secondo pilastro della nostra convivenza. Con esse infatti si colpiscono non le singole persone in quanto colpevoli di reato ma un’intera comunità in quanto ritenuta depositaria di valori inferiori. Nessuno si nasconde i problemi e le tensioni che i campi nomadi provocano, ma tutti debbono essere altrettanto consapevoli che la soluzione non può essere quella di cacciare via indiscriminatamente tutti i nomadi calpestando i loro diritti e gettando i loro problemi sulle spalle di paesi ancora più impreparati a risolverli e dai quali perciò saranno ancora una volta costretti a fuggire e a ritornare ancora più poveri e risentiti. La Commissione Europea aveva, all’inizio del decennio, proposto un grande progetto di intervento per affrontare in modo positivo e cooperativo questo problema che coinvolge milioni di persone e tutti i paesi dell’Unione. Il presidente francese e, al suo seguito, il governo italiano pensano invece che sia più giusto seguire i sondaggi di opinione che non garantire a tutti il sacrosanto diritto di libera circolazione, riconoscendo naturalmente alle autorità non solo il diritto ma il dovere di reprimere i reati e di custodire la sicurezza dei propri cittadini. Tutti sono consapevoli che, con queste decisioni, i problemi saranno in futuro più gravi e le soluzioni più difficili, ma è certo politicamente più conveniente ottenere per sé un vantaggio oggi mentre altri dovranno risolvere le tragedie di domani. E’ ormai l’eterno e drammatico problema della nostra democrazia che, vivendo sui sondaggi, diventa per definizione incapace di affrontare i problemi futuri. Una deriva che lascia ai successori problemi sempre più gravi ed un’eredità sempre più difficile da gestire. Una democrazia in cui i responsabili del potere non sono più in grado di esercitare il loro dovere di leadership perchè sono convinti che fare le cose giuste, anche se sgradite, sia solo un modo per perdere il proprio potere personale. Un modo di governare che obbliga di conseguenza ad aumentare il contenuto di demagogia e di manipolazione, entrambi necessari per indebolire lo spirito critico e la reazione morale che dovrebbe naturalmente conseguire dall’osservazione di queste decisioni. Si può rispondere che queste sono le regole della democrazia moderna. Ma se queste sono le regole allora bisogna prendere sul serio l’osservazione di un alto esponente politico cinese alla fine di una conversazione sui processi decisionali del mondo contemporaneo: “Sono molto preoccupato per il futuro della vostra democrazia”.
Romano Prodi

L'equivoco sui Rom

Duri o buonisti l'equivoco sui rom
di Giuliano Amato Il sole 24 Ore 19 settembre 2010

Serve solo a suscitare emozioni contrapposte dividersi in duri e buonisti sulla questione dei Rom. La avvertiamo insieme come un rischio per la nostra sicurezza e come una macchia per la nostra coscienza ed è solo dipanando questa matassa e separandone i fili che riusciremo a venirne a capo. In gioco infatti c'è di sicuro la nostra difesa dalla piccola e non sempre piccola criminalità che spesso alligna nei campi nomadi, ma c'è anche la libertà di movimento dei cittadini comunitari (quando si tratta di Rom di provenienza comunitaria) e ci sono i diritti di una minoranza, che dovremmo riconoscere e che ancora non abbiamo riconosciuto.

Procediamo con ordine. Ai Rom e ai loro modi di vita eravamo abituati da decenni, ma c'è stata un'impennata delle loro trasmigrazioni verso l'Italia, la Francia e la Spagna con l'ingresso nell'Unione dei paesi dell'Est europeo nei quali le loro condizioni di vita erano divenute sempre più grame. Possiamo restituirli a quei paesi per liberarci dei loro accampamenti degradati e dei pericoli che vi scorgiamo? La materia è regolata dalla direttiva europea 38 del 2004, che è appunto quella sulla libertà di movimento dei cittadini comunitari.

È una direttiva tutta scritta in chiave di garanzia e anche se contiene disposizioni per l'espulsione, con divieto di rientro, di coloro che rappresentino una «minaccia reale, attuale e sufficientemente grave da pregiudicare un interesse fondamentale della società», è molto attenta nel delimitare il caso.

Precisa che l'esistenza di condanne penali non giustifica da sola la misura, che non la giustificano neppure «ragioni di prevenzione generale» e che, in particolare, non la si può adottare per motivi economici, e cioè per mancanza di mezzi di sussistenza. Se un cittadino comunitario ne risulta sprovvisto dopo tre mesi dal suo ingresso in un altro paese, può essere allontanato, ma non gli si può vietare il rientro.

L'ispirazione della normativa è trasparente. La si può accusare di non aver previsto quei massicci spostamenti di poveri diavoli, spesso frammisti a male intenzionati, che in concreto ci siamo trovati addosso.

Sarebbe anche ragionevole emendarla nel senso che lo stesso allontanamento per motivi economici sia accompagnato dal divieto di rientro. Ma nessuno - spero - oserebbe toccare il fondamentalissimo principio che una cosa è la mancanza di mezzi, una cosa diversa è la pericolosità sociale e che, in ogni caso, qualunque provvedimento deve scaturire da una motivazione che riguarda singole persone, non gruppi sociali.
Immaginiamo comunque di avere tutti i mezzi legali per liberarci di chi è pericoloso e anche per allontanare con più efficacia chi non ha mezzi di sussistenza. Avremmo così risolto la questione dei Rom? I Rom non sono una congerie di diseredati che si ritrovano nei campi uniti solo dalle loro precarie condizioni di vita. Sono una minoranza con tradizioni culturali e linguistiche che, per cominciare, include italiani e non italiani, comunitari e non comunitari, cristiani e musulmani, cattolici e ortodossi. Hanno vissuto per secoli allevando cavalli ed eccellendo in attività artigiane e di manutenzione, che li hanno resi in passato fiorenti. Poi si sono trovati in un mondo che non aveva più bisogno di loro, le loro comunità hanno vissuto fra difficoltà crescenti e da un lato si è estesa nelle loro file la piccola criminalità come fonte di sussistenza, dall'altro molti di loro hanno cominciato a divenire stanziali e a integrarsi nei modi di vita che noi consideriamo normali.

Decisivo è diventato a questo punto l'atteggiamento verso di loro delle nostre società, cioè di tutti noi. I diversi hanno sempre destato diffidenza, a volte vere e proprie persecuzioni. E non ne sono stati indenni i Rom, 500mila dei quali furono vittime delle camere a gas naziste insieme agli ebrei. Ma questo, in molti paesi, non è bastato a farli vedere come vittime, a cogliere i loro nuovi bisogni, ad accettarli dunque via via che loro stessi venivano accettando forme nuove d'integrazione, che pure salvaguardassero la loro identità. Eppure, dove la si è praticata, l'integrazione funziona.

È accaduto così che nelle sedi europee abbiamo approvato raccomandazioni contro il razzismo, risoluzioni per la scolarità dei bambini Rom e stanziamenti sul bilancio comunitario per progetti d'integrazione. Poi alcuni paesi (come documenta Leonardo Martinelli nel suo articolo di venerdì su questo giornale) sono stati coerenti, mentre noi in Italia, abbiamo fatto nel 1999 una legge per la tutela delle minoranze, ma l'abbiamo limitata alle minoranze territoriali e ne abbiamo per ciò stesso escluso i rom, lasciandoli nel loro limbo.

Quando ero ministro dell'Interno conobbi un ragazzo Rom di diciotto anni. La sua famiglia era fuggita dalla Bosnia durante la guerra dei primi anni 90 e proprio a causa della guerra erano bruciati gli atti dello stato civile da cui poteva risultare la sua cittadinanza. Da noi era andato a scuola e ora, dopo diciotto anni, o gli si dava un permesso di soggiorno, o lo si doveva espellere, mandandolo non si sa dove. Ma il permesso di soggiorno non poteva essere fatto, perché non aveva una cittadinanza, legalmente non esisteva.

Lo salvai dall'espulsione, ma mi convinsi una volta di più che una legge sulla minoranza Rom era quello che mancava. Cominciai a lavorarci ma, come già ho raccontato in un articolo precedente, venni invitato dalla mia maggioranza ad aspettare il momento più opportuno e poi, all'inizio ormai del 2008, cadde il governo.

Ecco, siamo a questo punto, salvo gli episodi di positiva integrazione in non molti comuni italiani. Chissà quanti sono i ragazzi come quello di cui ho parlato che, a differenza di lui, sono finiti nei gorghi delle procedure di espulsione, anche se non eseguite perché di fatto non eseguibili. Si staranno nascondendo in qualche campo, vivranno di espedienti e di sicuro si sentiranno più solidali con chi fa spedizioni notturne per asportare il rame dalle linee ferroviarie che non con tutti noi, "gage" ostili che cerchiamo solo di evitarli. Le visite che ho fatto nei campi Rom mi hanno dato più di una prova dell'errore che facciamo usando solo la durezza e usandola in modo indifferenziato. L'unico risultato è che si rinserrano le fila e viene frustrato così il desiderio (formulatomi esplicitamente) di non vivere più fianco a fianco con i ladri e i delinquenti che invece spadroneggiano nel necessitato silenzio degli altri. Immagino che sia quello che sta accadendo in questi giorni in Francia.

Torno così al punto di partenza. Non facciamone una partita fra duri e buonisti, perché comunque finisca noi la perderemmo. La partita si vince se la si gioca su entrambi i fronti e, se lo si fa, noi stessi possiamo uscirne più soddisfatti. Vogliamo la sicurezza, ma non ci piace sentirci la coscienza sporca. O no?
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